"Microsoft e Sony giocavano un altro gioco": questo è, in estrema sintesi, il commento di Toshihiro Nagoshi una volta interrogato sul grande psicodramma che fu il Dreamcast. Nagoshi, una delle figure chiave tra i team di sviluppo di Sega al volgere del secolo, quando c’è da imbastire quella che rimarrà l’ultima console del gruppo giapponese, non sembrava aver rimpianti rispondendo. Succedeva solo pochi mesi fa, quando il ventennale del lancio dell’hardware a 128 bit si avvicinava a grandi passi. È evidente che il responsabile di Sega Rally (ieri) e di Yakuza o Judgment (oggi) sia venuto a patti con le regole di un conflitto che ha visto Sega uscire quasi sbriciolata, più che ridimensionata.
Il Dreamcast è stata una cosa mai vista, sotto una quantità innumerevole di aspetti. Disponibile dal 1998 in Giappone e tra settembre e ottobre del 1999 negli Stati Uniti e in Europa, si è visto staccare la spina già all’inizio del 2001. Una corsa a perdifiato, in cui il fiato è stato effettivamente mozzato a tal punto da richiedere, figurativamente, l’ospedalizzazione.
I numeri al botteghino sono spietati, Sega capisce che rischia non di perdere una battaglia, ma l’intera guerra. Lo spettro del fallimento spinge i vertici ad alzare bandiera bianca proprio quando critici e (parte del) pubblico inneggiano alla console bianca come a un completo ritorno alla forma migliore per l’etichetta di Sonic.
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Sonic Adventure porta, nel 1998, il porcospino a esplorare le tre dimensioni. Un gran bel modo per lanciare il Dreamcast in Giappone (e poi negli USA e in Europa).
Una cosa mai vista sotto il profilo hardware, perché il Dreamcast precorre i tempi e si appoggia a delle soluzioni condivise come un sistema operativo marchiato Windows. E mai prima di "lui" si erano viste schede di memoria con un piccolo schermo LCD, per continuare a giocare anche una volta spento il televisore (vi ricorda nulla? Chiedetelo a Nintendo).
I primati del Dreamcast sono davvero tanti, troppi purtroppo. Sega mette a disposizione tastiera e mouse per giocare a Quake III (e non solo), prevede un sistema di gioco online che, fermi tutti, funziona e funziona ben prima che Microsoft faccia qualcosa di simile con Xbox Live.
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Quando mai si era vista una tastiera (e un mouse) per giocare online con i propri amici… attraverso una console? Uno dei tanti primati del Dreamcast.
Sega, soprattutto, dà fondo alla sua fucina di talenti, chiede a tutti di gettare il cuore oltre l’ostacolo, un po’ come il suo presidente Isao Okawa che, al lancio, quasi supplica la stampa di supportare questo nuovo tentativo di aggredire il mercato. Dopotutto il buco nell’acqua fatto segnare dal Saturn è ancora fresco e fa ancora male, in particolar modo ai commercialisti del colosso che aveva fatto la voce grossa appena una generazione prima con il Mega Drive.
Il risultato di quegli sforzi si concretizza in una serie di giochi che mandano in visibilio chi ha voluto dare fiducia alla console e sembra ineluttabile il trionfo che, infine, porterà a zittire l’arroganza di Sony e di PlayStation 2. Così pensa qualcuno. Tanti altri, milioni di altri, pensano solo a quella PlayStation 2 però.
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Shenmue è il kolossal dai piedi d’argilla di Suzuki. Il talento che ha fatto grande Sega ha contribuito in qualche modo a tagliarle le gambe.
Ed è per questo che Sega e Dreamcast fanno un’altra cosa mai vista prima: si arrendono. Alzano le braccia e chiedono aiuto. I team interni dall’inizio del 2001 vengono messi al lavoro su conversioni e giochi originali per le piattaforme un tempo avversarie e l’esperimento dell’evocatore di sogni è ufficialmente interrotto.
Anche per questo il Dreamcast rimane bello e, paradossalmente, immortale: come James Dean o Kurt Cobain se ne è andato presto, troppo presto. Cristalizzato all’apice della potenza e dell’ispirazione, non ha subito l’onta degli anni che passano. Anche se sono già venti. In alto i joypad!