La strada per Damasco è stata breve. Il fronte dei ribelli ha folgorato il regime di Bashar al-Assad e ha ridisegnato il risiko del Medioriente. La Siria ha riscritto nuovamente la storia, e lo ha fatto in meno di due settimane. L'8 dicembre le postazioni dell'esercito governativo lungo la via dal Libano a Damasco giacevano deserte, l'asfalto disseminato delle uniformi lasciate dai soldati, che avevano indossato in fretta e furia i primi abiti civili che hanno trovato. Lungo la stessa strada, i manifesti con il volto dell'ex dittatore sono stati strappati, deturpati, dati alle fiamme. Ribelli e jihadisti ora proclamano una nuova Siria amica del mondo, in cui nessuna religione sarà perseguitata e in cui le donne non saranno costrette a indossare il velo islamico. Una nuova Siria con una nuova bandiera, con tre stelle rosse al posto delle "vecchie" stelle verdi. Ma anche una nuova Siria inserita in un nuovo Medioriente, bivio cruciale di un mondo che cambierà di conseguenza. Soprattutto negli equilibri tra potenze.
Gioco tra potenze: cosa succede in Siria -
La Siria ha riscritto la storia ancora una volta, ancora una volta in maniera inaspettata. O quasi. La famiglia Assad lascia il potere dopo mezzo secolo di pugno di ferro, con l'ultimo rampollo che fugge a Mosca dal grande protettore russo. Proprio il Cremlino ha accusato una decisa perdita di influenza in Siria al pari dell'Iran. Impegnate nelle rispettive guerre in Ucraina e in Medioriente, le due potenze non hanno avuto la forza necessaria a difendere Assad come invece fecero dieci anni fa, nel 2014. I grandi avversari ed egemoni globali, gli Stati Uniti, ne hanno approfittato, cogliendo il momento propizio per sfruttare il momento di debolezza russo-iraniano. Ma la vera vincitrice nella polvere di Damasco è la Turchia, fin dalle Primavere Arabe del 2011 principale patron militare e finanziario dei ribelli anti-governativi siriani.
La Turchia vince, ma deve gestire il suo successo -
Il governo Erdogan ha portato a compimento una multiforme strategia di successo: opporsi ad Assad mentre negoziava con i suoi sostenitori, ospitare rifugiati, sostenere l'opposizione anti-governativa (i cosiddetti "ribelli") politicamente e militarmente e combattere le forze curde nel nord della Siria. L'obiettivo principale di Ankara è aumentare la propria profondità strategica, controllando territori in cui difendersi lontano dai centri urbani nel sud-est della Turchia. Per riuscirci, deve sconfiggere definitivamente i curdi del Pkk e imporsi come grande potenza del Medio Oriente, a scapito di Israele. La Turchia si conferma insomma il più importante attore regionale che sostiene la parte ribelle siriana, dai tempi delle rivolte della già citata Primavera Araba del 2011 contro il regime. Anche sostenendo una serie di gruppi islamisti durante la guerra civile siriana. Tra questi il principale e più consistente è l'ormai celebre Hts, che da Ankara ha ricevuto armi (principalmente droni) ma che non è il cliente principale del governo turco. L'alleato principale di Erdogan tra i ribelli è l'Esercito nazionale siriano che, nonostante il nome, rappresenta una formazione interamente turca. Dopo la sconfitta dello Stato Islamico, i turchi sono stati più preoccupati per l'emergere di un'entità curda nella Siria settentrionale guidata dalle Forze democratiche siriane (Sdf). Queste, sebbene siano un'organizzazione siriana, affondano le radici nell'insurrezione turco-curda.
Erdogan vuole ricostruire la Siria, coi soldi del Qatar -
Ankara esercita ora un'influenza economica, diplomatica e militare senza pari sul processo di stabilizzazione e ricostruzione del Paese mediorientale. E, soprattutto, è ben vista dalla maggioranza dei siriani, anche grazie alle numerose e attive organizzazioni umanitarie turche che distribuiscono beni di prima necessità alla popolazione che hanno contribuito ad affamare. Ankara ha già inoltre organizzato la restaurazione infrastrutturale ed economica del Paese, gestendo e coordinando le risorse finanziarie che saranno messe sul piatto dalle monarchie arabe del Golfo, Qatar in primis. Una sfida ardua, perché quando si muovono capitali e interessi la tensione fra Stati aumenta. La Turchia dovrà infine trattare con estrema cautela un fenomeno potenzialmente critico: il ritorno di oltre tre milioni di rifugiati siriani che attualmente risiedono all'interno dei suoi confini. Il 55% proviene dalla regione di Aleppo, un polo industriale azzerato dai combattimenti che, proprio grazie all'iniziativa turca, sta cominciando a vedere riaprire diverse fabbriche.
Gli Stati Uniti restano alla finestra -
Come di consueto, gli Stati Uniti la buttano sulla propaganda della democrazia e dei diritti universali, affermando che "sarà il popolo siriano a decidere il suo futuro". In realtà restano operativamente in disparte, almeno per il momento. La postura degli Usa mostra quasi uno "scambio" di ruolo con la Turchia: da onnipresenti ad ambigui, da interventisti ad attendisti. L'approccio degli Stati Uniti alla Siria nell'ultimo decennio, tollerando Assad e i suoi protettori iraniani, si è concentrata eccessivamente sulla minaccia sbiadita dell'Isis. Washington ha continuato a fornire assistenza umanitaria ai siriani, ma ha cessato gli aiuti politici e militari agli oppositori di Assad, garantendo invece sostegno incondizionato ai curdi dell'Ypg. Gli Stati Uniti hanno inoltre deciso di collaborare con le sopra citate Sdf quando le forze irachene, siriane e curde si sono sciolte al culmine dell'assalto dell'Isis nel 2014. Questa partnership ha avuto successo e, fino a oggi, Washington mantiene una forza di circa 900 soldati nella Siria settentrionale in collaborazione con le Sdf. Sulla carta per prevenire la rinascita dell'Isis, nella realtà per curare gli interessi americani nel Paese centrale per gli scambi mediorientali. E non se ne andranno, come certificato dal Pentagono. Il principio strategico degli Stati Uniti è lo stesso in ogni continente o regione del mondo, incluso il Medio Oriente: evitare con ogni mezzo che emerga una potenza o un Paese più forte degli altri. La creazione e il sostegno di Israele è un tassello fondamentale di questa strategia.
Israele esulta, ma il tempo sta per scadere -
Ed eccoci a Israele, sicuramente tra gli attori più soddisfatti della caduta del regime di Assad. Quest'ultimo era infatti il punto focale dell'Asse della Resistenza messa in piedi dall'Iran. Attraverso la Siria del raìs passavano tutte le armi, i rifornimenti e i finanziamenti per Hamas e Hezbollah, agenti di prossimità incaricati da Teheran di fare la guerra allo Stato ebraico. Ora inevitabilmente indeboliti dalla scomparsa del loro principale alleato estero. L'esercito israeliano ha approfittato del caos siriano per conquistare il monte Hermon, sulle Alture del Golan contese da decenni proprio con la Siria, estendendo i propri confini e dichiarando nullo un patto stipulato con Damasco nel 1974 (all'alba della dinastia Assad). La pioggia di fuoco e raid che Netanyahu ha scatenato nei giorni successivi al cambio di regime in Siria vuole dare il colpo di grazia alle capacità militari abbandonate dai governativi in fuga, evitando che finiscano nelle mani delle nuove autorità jihadiste. Israele dovrà infatti ora fare i conti coi nuovi decisori siriani, puntando a una normalizzazione che potrà certamente essere ascritta come grande successo anche dal prossimo presidente americano Donald Trump. In questo senso Netanyahu ha un mese scarso prima che il tycoon ritorni alla Casa Bianca e faccia seguito alla retorica promessa di "porre fine a tutte le guerre in 24 ore".
La Russia è indebolita, ma non se ne andrà dalla Siria -
La Russia era il principale protettore del regime di Assad, come dimostra il fatto di aver organizzato la fuga del deposto dittatore a Mosca. Per questo motivo Mosca figura tra gli sconfitti, anche se non muta la sua strategia in Siria e in Medio Oriente. Il Paese è per il Cremlino il prisma imprescindibile attraverso il quale proiettare la propria influenza nel Mediterraneo. I due avamposti principali sono la base navale di Tartus, l'unica nel Mediterraneo, e quella aerea di Ḥumaymīm/Kheimim, nei pressi di Latakia. La vittoria degli insorti ha determinato la fuga delle navi, ma non delle esigenze russe: preservare la presenza militare nel Paese e le basi sulla costa e impedire il colpo di coda in patria dei jihadisti provenienti da Caucaso e Asia Centrale. La priorità di Putin è dunque cercare un accordo con il nuovo governo siriano, per non perdere le proprie basi strategiche sul territorio. Impresa non facile, visto che fino alla settimana scorsa gli aerei da guerra russi di stanza in Siria bombardavano proprio le forze ribelli che hanno preso il potere. Il Cremlino potrebbe tuttavia esercitare un vantaggio: la caduta del regime filo-russo di Assad non porterà alla sua sostituzione con un regime filo-occidentale, come è accaduto dopo le "rivoluzioni colorate" degli anni precedenti. Un altro punto a favore di Mosca sono i buoni rapporti in corso con gli altri importanti attori regionali: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar ed Egitto. Un ulteriore scenario favorevole alla Russia vedrebbe lo scatenarsi di una lotta di potere tra i nuovi decisori siriani, il che offrirebbe a Mosca l'opportunità di infilarsi nella contesa mettendo gli uni contro gli altri. Sostenendo, ad esempio, uno staterello alawita lungo la costa del Mediterraneo dove si trovano le sue due basi (la minoranza alawita era la spina dorsale del regime di Assad). Perfino la parte retorica e propagandistica sarebbe già pronta da servire: il Cremlino potrebbe citare a mo' di precedente il sostegno americano all'entità parastatale curda nella Siria nord-orientale.
L'Iran, il grande sconfitto -
L'Iran, l'abbiamo detto, è la potenza che esce peggio dal rivolgimento siriano. Con un solo colpo ha perso capacità di influenza e utilizzo del corridoio siriano per sostenere i suoi satelliti Hamas e Hezbollah contro Israele. Il tutto in un momento interno estremamente complicato, con uno scontro generazionale in corso per la futura leadership della Repubblica Islamica e una corsa al nucleare che non sta dando i risultati sperati. Nel giro di poche settimane, Teheran ha dunque perso i suoi pilastri nell'Asse della Resistenza (o Mezzaluna sciita, in dizione occidentale): le milizie siriane di Assad e gli sciiti libanesi. Con gli Houthi dello Yemen viti come i prossimi a cadere. L'Iran ora cercherà probabilmente di rafforzare le proprie capacità convenzionali, tra cui accelerare il suo accordo militare con la Russia, ricostruire il sistema di difesa aerea e sostituire i suoi missili danneggiati nell'attacco israeliano. Con un unico pensiero fisso: ottenere la bomba atomica per ridisegnare definitivamente l'equilibrio di potenza in Medioriente, pareggiando la pericolosità nucleare attualmente detenuta soltanto dall'acerrimo nemico israeliano.
La Siria non è una -
Un altro elemento fondamentale da considerare nel futuro della Siria è che il fronte ribelle che ha rovesciato Assad non è univoco, ma estremamente variegato. Al suo interno sono presenti laici, islamisti, jihadisti, cristiani, curdi e altre sottocategorie. Tra alcuni di loro le tensioni si sono già risvegliate, e i timori di una nuova guerra civile sono più vivi che mai. D'altro canto, il mantenimento del caos "a bassa intensità" e di un mosaico socio-religioso diviso sono un principio tattico per potenze esterne come Stati Uniti e Turchia. In questo marasma, diverso e uguale dal precedente, gli attori "sconfitti" come Russia e Iran potranno riaccordarsi con i nuovi decisori siriani per mantenere il controllo di basi militari e delle rotte logistiche che dal Paese si irradiano sotterranee in tutto il Medioriente.