Quelli de La rappresentante di lista sono "Giorni felici". Si intitola così il nuovo album del duo che torna con un album completamente di inediti a tre anni di distanza da "My mamma", il disco che ha fatto uscire Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina dall'alveo dell'underground per mettersi a confronto con il più vasto mondo del mainstream. Ma il titolo non deve ingannare: i giorni felici hanno il loro risvolto di dolori, spaesamenti e amarezze, e in questo disco tutto è raccontato in maniera diretta e con un sound robusto, che guarda esplicitamente agli anni 90 mescolando tante chitarre e ritmiche sostenute a melodie irresistibili, come si era già intuito dai due singoli apripista, "Paradiso", uscito in primavera, e "La città addosso". Tgcom24 li ha incontrati in occasione di una delle tante giornate promozionali che li aspettano.
Tornare al 2021, anno di uscita di "My Mamma" dopo la prima partecipazione in gara al Festival di Sanremo con "Amare" (avendo rotto il ghiaccio l'anno prima con la serata dei duetti), è questi d'obbligo. Perché per La rappresentante di lista quell'anno è stato il classico punto di svolta. Catapultati in una dimensione per loro inedita i due sono sembrati perfettamente a proprio agio, replicando a Sanremo con "Ciao ciao" l'anno seguente e poi con "Diva" per portare l'onda lunga fino all'estate. Ma non tutto oro è ciò che luccica. Dietro un improvviso successo di questo tipo possono anche nascondersi dubbi e malinconie. E da lì ha preso il "la" il processo di scrittura che ha portato a "Giorni felici". "Proprio il secondo Sanremo, era stato in qualche modo un motore per attivare nuovamente la scrittura - racconta Dario -. All'epoca cercavamo di capire come anche proseguire il racconto dopo 'Ciao ciao', e poi uscì 'Diva'. Era un periodo veramente di grande pressione, shooting, interviste... e c'eravamo ritagliati una giornata in studio a Milano e lì è successo qualcosa...".
Cosa è accaduto?
Dario: Mentre suonavo, Veronica iniziò a cantare, forse leggendo dal suo quadernino o addirittura improvvisando le parole di quella che poi è diventata 'Ho smesso di uscire'. La cosa interessante è che lei cantò cose come 'la vita mi fa sentire vuota, è come se ci fosse solamente noia'. All'epoca queste parole erano totalmente fuori luogo rispetto all'ambientazione che avevamo costruito in quel momento. E quindi era come se avessimo già passato una porta dimensionale catapultandoci a quello che siamo oggi.
Dici che all'epoca quelle parole erano fuori luogo. Oggi come le giudichi alla luce del disco finito?
Dario: Credo che questo disco sia ancora fuori luogo. Al di là di come possa essere percepito dal pubblico o dalla stampa, per noi è un disco scomodo perché è un po' tutto veramente dichiarato, tutto molto detto. Invece prima tendevamo a raccontare molto, non dico a romanticizzare, però i primi quattro dischi sono stati molto dischi di limatura, di ricerca verso la forma migliore.
Avete avuto chiaro sin da quel primo giorno dove volevate andare a parare con l'album?
Dario: Ovviamente non scrivi un album come fosse un monolito. Il lavoro di scrittura procede attraverso le singole canzoni che poi trovano un respiro unitario all'interno di un disco. Molte di queste canzoni erano custodite in un quaderno che Veronica tiene con tutti gli appunti delle idee che ci vengono e che poi rimaneggiamo. Fino a quando abbiamo pensato che questi giorni felici che avevamo attraversato e che probabilmente attraverseremo, ma che in quel momento sembravano quasi un'utopia, potevano essere un disco.
Una delle vostre caratteristiche è stata un continuo cambiare pelle, esplorando diversi mondi musicali anche all'interno dello stesso disco. Qui però emerge chiaro uno sguardo verso gli anni 90. E' stata una direzione cercata o è arrivata quasi inconsciamente?
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Veronica: Secondo me è venuta abbastanza naturale. Quando abbiamo avuto la necessità di parlare di pancia, anche con rabbia alle volte ed essere disobbedienti, è un po' come se avessimo ritrovato un momento della nostra vita in cui tutto questo faceva parte di noi e avveniva anche intorno a noi. In quel periodo, tra i 90 e il 2000, noi eravamo adolescenti e stavamo creando le nostre identità, stavamo sperimentando sulla nostra pelle, stavamo decidendo per certi versi da che parte stare, in altri casi invece c'erano degli schieramenti ben precisi a cui aderire o da cui prendere le grandi distanze. Quando abbiamo dovuto ritrovare un vocabolario musicale per esprimere tutto questo è stato subito facile ritrovarsi dentro questo universo.
Era un universo che avevate un po' perso di vista negli ultimi anni?
Veronica: Per noi in realtà gli anni 90 sono attualissimi, quindi non so neanche quanto siano stati un riferimento oppure quello che ci è sempre venuto bene fare. Se venivi ai nostri live qualche anno fa, avevamo sempre chitarre e batterie pestate. Alle volte in versione un po' più punk, penso a brani come 'The Bomba': prima erano proprio cose pazze adesso sono più strutturate nella forma canzone. Evidentemente abbiamo imparato a scrivere canzoni.
Ufficialmente il gruppo siete voi due però la vostra è una famiglia allargata, dalla band che vi accompagna in tour da anni ai tanti che contribuiscono alla stesura delle canzoni. Com'è il mondo de La rappresentante di lista?
Dario: La cosa che mi piace di più è che se guardi chi ha scritto le canzoni non troverai un autore professionista, non ci sono i nomi che ricorrono nella musica italiana in questo momento, le firme delle grandi hit. Qui gli autori e i compositori sono persone che abbiamo incontrato nella nostra strada. Come Kit Conway, un chitarrista che abbiamo conosciuto a New York per caso e che ci siamo portati a Palermo e ha scritto dei temi nelle nostre canzoni. Sono i nostri musicisti che poi sono in tour con noi. Figurano tutti come autori perché sono persone che hanno dato qualcosa e che noi, proprio per la forma collettiva con cui intendiamo La rappresentante di lista, ci teniamo a riconoscere a loro parte del lavoro fatto anche in termini di autorialità.
In "My Mamma" era presente "Fragile", la prima canzone cantata interamente da Dario. In "Giorni felici" i tuoi interventi vocali sono decisamente aumentati...
Dario: Banalmente a volte avevo bisogno di dire delle cose personalmente. In alcuni casi anche di dirle a Veronica e quindi non potevo chiedere a lei di dirsi le cose addosso, in un dialogo.
Veronica: Io posso interpretare delle parole o dei pensieri o dei sentimenti, però indubbiamente in questo caso certe cose dovevamo dirle insieme, altre cose doveva dirle lui da solo. In questo disco più che in altri abbiamo sentito la necessità di raccontare a 360 gradi anche questo duo, questa dualità che a volte è dialogo, a volte è contrasto, a volte è semplicemente la rappresentazione di un maschile e di un femminile.
La copertina del disco è molto particolare e in qualche modo traccia un ponte con quella del vostro primo album "(Per la) via di casa".
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Veronica: Assolutamente sì, anche là c'era una casetta. Questa copertina è figlia di un fortunato incontro con Davide Bondielli, un pittore, fotografo, artista delle mie parti toscano L'ho conosciuto grazie a mia sorella Erika, di cui è uno dei migliori amici. Da subito con Dario avevamo avuto questa idea, forse veramente abbiamo sentito anche inconsciamente questo ciclo di dieci anni dal primo disco, no? C'è di nuovo una casa, ci sono di nuovo dei temi che per noi sono cari: i rapporti interpersonali, con la famiglia, con gli amori, con le sofferenze. E poi questo palloncino che sbuca dal tetto ha questo sorriso inquietante che crea un po' di disagio. Ci fa pensare: sono giorni felici? Sono stati veramente giorni felici? Saranno giorni felici? E' un po' quella complessità e quei diversi livelli che ci piace sempre mettere nelle canzoni o nei nuovi processi di creazione.
Se allarghiamo la prospettiva e ci guardiamo intorno questi non sono affatto giorni felici. La musica come dovrebbe porsi in tempi come questi?
Dario: Sono giorni di grande disappunto, di orrore, di paura. Non è un caso che in questo disco le parole ricorrenti siano paura e mondo. La musica ogni tanto deve assumersi la responsabilità di essere visionaria e di immaginare anche possibilità che nel contemporaneo non sono previste, cosa che spesso la musica di oggi non fa, descrivendo in maniera inutile delle visioni un po' troppo personali, ego riferite, ripercorrendo così quell'individualismo che alla fine ci sta distruggendo.
Dal primo Sanremo al quale avete partecipato c'è stato per voi un cambio di dimensione. Come avete vissuto il cambio di percezione da parte del pubblico?
Dario: La differenza tra qualcuno che ti conosce bene come poteva il nostro pubblico e invece poi essere buttati in pasto a un pubblico generalista che può amarti, può apprezzarti, può riconoscere in te un'alternativa è enorme. Alla fine noi siamo sempre stati molto sui generis, anche nei nostri episodi più pop come quelli appunto sanremesi, però il rischio di non ritrovarsi in quella forma era altissimo. Posso dire che in qualche modo questo disco è una sana reazione a quella cosa.
Non c'è mai stato il timore di perdere un po' voi stessi?
Veronica: Più che altro, secondo me ci siamo anche persi. Nonostante ci tenessimo saldi la frenesia di certi meccanismi, di certe situazioni ti porta a sballottarti. A un certo punto ti fermi e dici: ma perché lo sto facendo? Qual era il motivo? Ma questa cosa che c'entra con me? E allora provi ad avere una reazione sana, ma ci vuole del tempo, perché è complicatissimo. Sei dentro lì e ti senti in colpa se rifiuti delle cose, nonostante comunque non le hai esattamente cercate. Per esempio io ho mai pensato alla dimensione del successo.
Dario: Il rischio è l'appiattimento, il potere che il mondo del mainstream ha di appiattire un artista perché fondamentalmente il mercato discografico chiede delle cose e se sei un artista a un certo punto tu puoi pensare di stare al tuo desiderio di dire delle cose oppure puoi benissimo piegarti alla volontà di mercato. Non c'è da biasimare un artista che decida di stare nel mercato e in qualche modo piegarsi al volere del pubblico. Noi volevamo delle cose, fare ricerche, ci diverte il processo così tanto che non possiamo annullarlo nell'idea di essere degli "hitmakers", che è una cosa detestabile.
C'è anche l'altra faccia della medaglia: un gruppo come voi, che viene dall'underground, spesso quando ottiene il grande successo viene accusato dai fan della prima ora di essersi svenduto o aver tradito gli ideali di partenza...
Dario: Certo, è un altro aspetto. Oscar Wilde diceva: "Io vivo con le grandi preoccupazioni di non essere frainteso". Invece la cosa bellissima è essere fraintesi, cambiare, modificarsi.