Tra le più alte d’Europa e pagate da una platea ristretta, specie in alcune aree del Paese. Le tasse universitarie, per l’Italia, continuano a essere un fardello pesante di cui devono farsi carico gli studenti che puntano l’obiettivo laurea e, soprattutto, le loro famiglie.
Negli atenei pubblici, infatti, la quota media da versare annualmente per iscriversi a una facoltà oscilla tra i 900 e i 1.000 euro: una media aritmetica che tiene conto anche di chi frequenta ma senza pagare in tutto o in parte le tasse universitarie. Somme che, nel caso delle università private, vanno quasi quadruplicate: in queste strutture la cifra media è di 3.408 euro. Stessa cosa per conseguire un master: in un ateneo pubblico costa mediamente 3.543 euro.
A segnalare lo “stato dell’arte” di questo elemento cruciale nel percorso di avvicinamento ai titoli accademici è l’indagine “Università, quanto mi costi”, elaborata e appena presentata dall’Unione degli Universitari.
La tassazione universitaria in Europa
I numeri, messi così, possono dire poco. Ma, inseriti in un contesto più ampio come quello continentale, parlano da soli. Come detto, infatti, la tassazione italiana si conferma decisamente più elevata rispetto a tante altre grandi nazioni europee. L’UdU, su questo, riporta alcuni casi emblematici. In Germania, ad esempio, non ci sono tasse universitarie ma solo contributi semestrali tra 100€ e 350€; che inoltre includono anche i trasporti pubblici. In Francia, invece, le tasse vanno da 170€ per una laurea triennale a 380€ per un dottorato. Per non parlare di Svezia, Danimarca e Finlandia, dove laurea e master sono praticamente gratuiti.
A far compagnia all’Italia in qualità di paese con la tassazione universitaria più alta, ci sono giusto una manciata di nazioni. Come i Paesi Bassi, dove si viaggia tra i 700€ e i 2.100€ all’anno. O come la Spagna, dove una laurea triennale può costare tra 150€ e i 3.500€ all’anno; qui molto dipende dai crediti universitari accumulati durante il percorso.
La “no tax area” va in soccorso degli studenti economicamente più fragili…
A differenza di questi ultimi due contesti, però, l’Italia ha un meccanismo di diritto allo studio più efficace. Che gli permette di rendere l’università sostenibile dal punto di vista economico per molte più persone. Il riferimento, come segnala un approfondimento del report UdU effettuato dal portale Skuola.net, è in particolare l’introduzione della cosiddetta “no tax area”, legata al reddito famigliare, che evita il pagamento, in tutto o in parte, delle tasse. E che si è ampliata nel tempo.
Nel 2017, anno della sua introduzione, l’esonero totale era appannaggio di quanti avevano un ISEE fino a 13mila euro mentre quello parziale era fino ai 30mila euro. Dopodiché, la platea esonerata del tutto è stata ulteriormente allargata, con un picco nel 2021, attualmente vigente, che copre chi ha un ISEE fino a 22mila euro. Inoltre, alcuni atenei hanno autonomamente innalzato la propria no tax area, fino anche a 30mila euro, spesso facendola però scattare in base a criteri di merito.
Tutto questo ha fatto sì che nell’anno accademico 2023/2023 - ultimo censito dall'indagine UdU - su 1.909.360 studenti iscritti, 600.828 sono stati esonerati completamente (31%), di cui 572.703 negli atenei statali e 28.125 negli atenei non statali. Mentre 237.456 studenti (12%) sono stati esonerati parzialmente, con 206.696 negli atenei pubblici e 30.760 negli atenei privati.
...ma stanga quelli che hanno redditi più elevati
Numeri confortanti che, però, come spesso accade hanno il loro rovescio della medaglia. Perché le università hanno comunque bisogno di gettito per sostenersi. La soluzione? Scaricare il peso delle tasse su chi resta fuori dalle agevolazioni. Cosicché, la vera somma media per studente, alla fine cresce e secondo le stime diventa di 1.452 euro per “pagante”. In più, secondo l’UdU, negli ultimi anni alcuni atenei hanno ulteriormente aumentato le tasse per gli studenti non esonerati. Questo perché la “no tax area”, dal 2021, non è più stata adeguata al costo della vita.
Non solo. Lo studio segnala pure enormi differenze tra un contesto e l’altro. Si passa, infatti, da una tassa media per iscritti minima, come i 400-500€ delle università di Sassari, di Foggia, di Napoli Orientale e della Calabria, fino a un massimo di 1400-1600€ di università dell’Insubria, del Politecnico di Milano e dei due atenei di Venezia. A conti fatti, l’ateneo con il gettito più alto percepisce una tassa media che è superiore di tre volte e mezzo quella dell’ateneo con il gettito più basso.
Il territorio in cui si frequenta l’università cambia di netto gli importi dovuti
La ragione fondamentale di quanto appena detto è il livello di benessere economico dei territori in cui si trovano i vari atenei: nelle zone d’Italia più ricche ci sono più studenti nelle fasce di reddito ISEE più alte (che quindi pagano di più). Di contro, nelle aree più in difficoltà gli studenti si concentrano nelle fasce più basse, essendo così chiamate a pagare meno.
A cui si collega, secondariamente, l’autonomia universitaria, che permette ad ogni struttura di modificare al rialzo o al ribasso i “prezzi”, in base a criteri vari (costi di gestione su tutti). Non a caso, gli atenei che incassano di più si trovano nel Nord Italia. All’opposto, tutti quelli con le entrate più basse si trovano al Centro-Sud Italia.