Qualcuno volò sul nido del Franco Parenti. Come in quel vecchio (pluripremiato) film di Forman, citato da uno degli attori, Chi come me riporta al centro della scena cause ed effetti di una clinica psichiatrica, in questo caso per adolescenti. La regista Andrée Ruth Shammah si impossessa fisicamente e moralmente dell’opera dell’israeliano Roy Chen e la nutre con idee geniali in una sala costruita come una specie di nido (applauso all’allestimento scenico di Polina Adamoy), dove attori e spettatori si abbracciano senza toccarsi, si emozionano senza farsi (troppo) del male.
Chi come me - un “piccolo” spettacolo perfetto tratto originariamente da una storia vera - ci parla, nello stesso momento, di problemi psichici e di sogni, di solitudini e di amicizie, di morte e di voglia di vivere. Ma soprattutto ci parla di teatro. C’è tanto amore per l’arte della commedia in questa storia di anime in p(i)ena, in cui un pragmatico dottor Bauman (Paolo Briguglia) si allea con Dorit (Elena Lietti), donchisciottesca insegnante di recitazione, che col teatro vuole cambiare il mondo, almeno quello dei cinque adolescenti ricoverati nella clinica in cui lavora. Grazie a questo manipolo di attori giovanissimi e bravissimi (Amy Boda, Federico De Giacomo, Chiara Ferrara, Samuele Poma, Alia Stegani) e grazie ai loro finti genitori (Sara Bertelà e Pietro Micci, strepitosi trasformisti, nei panni di 8 personaggi), prende vita una storia dolorosa e tenera, in cui la potenza curatrice del teatro arriva a toccare (anche fisicamente) gli spett-attori, in un intimo scambio in cui realtà e finzione si fondono insieme.
Con la solita, delicata regia, Andrée Ruth Shammah emoziona il pubblico dal primo all’ultimo minuto. Ma non solo: lo interpella, lo invita, poi lo spinge con forza su questo palcoscenico di adolescenti tormentati, un po’ culla e un po’ nido: al riparo dal mondo, ma esposto alla vita.