Si intitola "Fake Is the New Dope" il nuovo album degli Hooverphonic, eclettica band belga giunta al dodicesimo lavoro di inediti in studio. Un antidoto musicale per superare le fragilità di ciascuno di noi, con dodici canzoni che inneggiano alla consapevolezza, contro una realtà ormai devota all'apparenza, e un intrigante universo sonoro che li ha sempre accompagnati.
Incontriamo Alex Callier mentre si trova a Barcellona, per qualche giorno di relax dopo un lungo tour iniziato a ottobre e che tra le ultime tappe ha toccato anche Milano.
Che capitolo rappresenta questo nuovo album nella carriera degli Hooverphonic?
E' diverso, nel senso che ci siamo allontanati dal pop da camera che abbiamo fatto per un po' di tempo. Gli Hooverphonic sono una band dalle molte facce: abbiamo iniziato come band di trip hop elettronico, poi siamo diventati un po' più pop, un po' più orchestrali, ispirati alla lounge degli anni 60, poi siamo diventati una band di rock psichedelico, e poi nel 2010 abbiamo deciso di diventare più una band di pop da camera, ispirata a vecchi film degli anni 60, film francesi. Nel 2015, con "Wonderland", siamo tornati un po' alle nostre origini, ma poi con "Hidden Stories" abbiamo fatto un viaggio di ritorno all'epoca del chamber pop. E' come se fossimo in viaggio da quasi 30 anni, quindi questa è sempre la nostra battaglia: cercare di fare qualcosa di nuovo senza allontanarsi troppo da ciò che siamo e cercando di restare vicini al nostro cuore e al nostro Dna.
In questo album si può riscontrare un elemento di novità nei testi, è così?
Sì, rispetto al passato i testi sono un po' più ispirati alla realtà, mentre per noi le liriche delle canzoni sono sempre state un po' una fuga dalla realtà. In questo album invece sono stato influenzato molto da ciò che accade intorno a noi ogni giorno. E allo stesso tempo, dopo 25 anni, ci siamo sentiti un po' più attratti dalla musica elettronica degli anni 90, come se avessimo iniziato nel 1995. Ci sono anche influenze dell'hip hop di quegli anni, come "Illmatic" di Nas. Musicalmente siamo tornati un po' indietro anche a causa del Covid. A causa di quello che è successo ho lavorato molto isolato nel mio studio e anche per quello ho utilizzato diversi campionamenti.
Quanto il Covid ha influenzato la nascita di questo disco?
Molto. Sono anche entrato in una sorta di depressione, una cosa che non avrei mai pensato potesse capitarmi. Io sono un animale sociale, mi piace conoscere gente, viaggiare, fare concerti: quando mi hanno tolto tutto questo sono entrato in crisi. D'altra parte è stata anche una cosa positiva, perché mi ha ispirato. So che molti musicisti sono entrati in depressione durante la pandemia e molti si sono anche bloccati a livello di scrittura. Io invece ho continuato a scrivere canzoni e musica in grande quantità che si sentono anche in questo disco.
Come sei uscito da quella depressione?
Con la musica. Il momento decisivo sono stati tre concerti in Francia che abbiamo fatto nel dicembre del 2021. In quei due anni, eccezion fatta per due show con un pubblico molto limitato, non abbiamo suonato mai dal vivo. E sono arrivati questi tre concerti. Almeno tre canzoni del nuovo album le ho scritte durante quella settimana. Ricordo che all'inizio ha dovuto spingermi mia moglie ad accettare questo impegno, sono salito sul tour bus sentendomi davvero male. Ma già dopo poche ore stavo meglio, solo parlando con i miei amici e con i miei colleghi musicisti e vedendo il paesaggio che cambiava. Così siamo arrivati a Metz, per il primo concerto e alla fine dello show mi sono rivolto al pubblico sconvolto, dicendo: "Grazie per essere qui, perché siete i migliori Prozac del mondo". Quando siamo andati in hotel sono riuscito a dormire per ore, cosa che non mi capitava da settimane.
C'è un po' di Italia nell'album, per esempio "Don't Think" e "Por Favor" sono state scritte con Luca Chiaravalli.
E non solo, nella prima c'è anche il campionamento della voce di un mio amico italiano, Ernesto. Tra l'altro l'ispirazione per il testo me l'ha data lui un giorno a pranzo. Essendo cardiopatico ha sofferto molto il periodo pandemico, dovendo restare recluso diversi mesi. E un giorno mi ha detto "Non c'è niente tra il pranzo e la cena". È così che è stata scritta "Don't Think". Mentre quella sorta di cantilena che si sente all'inizio del pezzo è una prova microfono che Chiaravalli gli ha fatto fare in studio. Con Luca comunque siamo amici e collaboriamo da molti anni. Sia in "Don't Think" che in "Best Day of My Life" si sente che mi sentivo meglio, ma parlano ancora di quei momenti bui. La seconda è un po' più old school. Come dire, c'è il faro psichedelico e poi si va avanti e indietro. Ma questo è tipico di chi siamo.
Come definiresti la vostra musica?
Siamo sempre stati una band molto eclettica. Anche il nostro primo disco era considerato trip hop, ma se lo ascolti ora... più di 25 anni dopo senti quasi un sacco di shoegaze e un sacco di influenze new wave e dream pop. I Cocteau Twins, i My Bloody Valentine e tutto il resto. Quindi, fondamentalmente, "2Wiki" e forse "Inhaler" erano canzoni trip hop ma già nel primo disco, "A New Stereophonic Sound Spectacular", c'era molto di più e avevamo iniziato a sperimentare.
Questo è il vostro dodicesimo album in studio. Abbiamo parlato di quanto abbiate sempre cambiato, mantenendo però una sostanziale riconoscibilità. Allora qual è la vera essenza degli Hooverphonic?
La risposta è molto difficile perché ha a che fare con la teoria musicale, ovvero il tipo di armonia che io amo. Perché non importa se si tratta di jazz, musica classica, pop, o altro, c'è proprio un tipo di armonia che mi attrae. Per esempio io adoro Eric Satie, George Gershwin ma di fondo non amo l'amonia classica. Sono stato sempre più attratto dall'impressionismo, dai cambi di tonalità, i passaggi da maggiore a minore: pensa a "Strawberry Fields" dei Beatles, con quel passaggio iniziale meraviglioso. Quel tipo di musica è quello che mi ha sempre affascinato e in quel modo ho iniziato a comporre. Luca Chiaravalli ha lo stesso tipo di visione e per questo ci siamo trovati. La nostra musica quindi è riconoscibile per come è costruita armonicamente, per come si combina la melodia con gli accordi che scelgo.
L'album si intitola "Fake Is the New Dope", "il falso è la nuova droga": che spazio può avere la musica vera in tempi come questi?
Non sono contro l'intelligenza artificiale e nemmeno ad artifici come l'uso dell'autotune o di Photoshop in fotografia. Tutto dipende da come utilizzi questi strumenti. Se usi l'autotune per salvare una registrazione dove la cantante ha fatto un'interpretazione eccezionale ma ci sono due o tre note fuori posto, che problema c'è? Senza contare che anche negli anni 80 venivano utilizzate macchine per programmare la musica. La vera differenza sta nel fatto che all'epoca l'effetto era un po' "plasticoso", era come se sentissi subito che era programmata. Oggi si può programmare la musica e credo che il 75% delle persone non sappia nemmeno che non è reale. Per esempio gli archi in questo album sono stati programmati, io riesco ancora a distinguere uno strumento vero da uno sintetizzato, ma molti dei miei amici non capiscono più la differenza.
Quindi utilizzare strumenti realizzati sinteticamente non è un tabù per te?
Certo che no. Faccio un esempio: su "Looking for Stars", il nostro album del 2018, avevamo un demo su cui Luca Chiaravalli aveva fatto la parte di batteria con una tastiera. Poi abbiamo registrato la batteria vera e quando l'ho mixata la nostra cantante mi ha detto che il demo era molto meglio. L'ho riascoltato ed era effettivamente così. Quando il nostro batterista una volta uscito il disco mi ha fatto notare che non erano stati dati i suoi crediti per il pezzo, gli ho risposto che non mi ero dimenticato, semplicemente a suonare in quella canzone non era lui... Questa è la più grande differenza tra gli anni 80 e oggi.
E se fosse l'intelligenza artificiale a creare strumenti o peggio ancora a scrivere una canzone?
Probabilmente noi, a un certo punto l'intelligenza artificiale sarà così brava. Ci sarà una canzone scritta con l'intelligenza artificiale che forse arriverà a me. Forse un giorno lo farà, troverà la giusta soluzione. Per il momento non ci è ancora arrivata. Non credo che il disco falso degli Oasis sia un disco falso degli Oasis, semplicemente non è un disco degli Oasis. Ma non sono contrario per principio al fatto che il computer scriva una bella canzone che mi colpisca emotivamente.
Stanno lavorando perché diventi sempre più brava a fare questo...
Credo però che per un computer sia difficile capire le emozioni e soprattutto le loro sfumature. Per non parlare dei sottotesti e delle molteplici interpretazioni. Per esempio se io chiedessi di scrivere a Chat GPT una canzone degli Hooverphonic, con un testo molto dark, probabilmente lo farebbe, ma ignorando completamente che nei nostri testi c'è sempre un sottofondo di umorismo, un contrasto tra l'oscuro e l'allegro che è fondamentale per dare il carattere a una nostra canzone. Il computer non lo capisce, non lo vede, e quindi non lo mette. Per questo motivo non funziona.
Quindi non hai paura dell'intelligenza artificiale?
No. Ma ho paura delle persone cattive che ne abusano. Ma queste persone esistevano anche nel 1930 e nel 1939, e la propaganda degli anni 40 era in realtà composta da fake news. Per divertimento a volte, quando faccio delle demo chiedo all'intelligenza artificiale di cambiare la mia voce in quella di Dave Gahan o di Frank Sinatra. A essere onesti, non suona male. Non è ancora a posto, ma a volte penso che sia spaventoso come si possa cambiare la voce di qualcuno. Cercando di rispondere brevemente alla tua domanda, penso che stiamo vivendo un'epoca interessante che ha anche aspetti spaventosi. Ma credo che tutte le epoche siano così e quindi sia meglio non avere paura e cercare di vivere la propria vita., è come se nella vita fossimo sempre alla ricerca di un equilibrio ma per gli esseri umani è molto difficile. È sempre stato così e non cambierà mai.
Detto questo il vostro ultimo show live è quanto di meno artificiale si possa immaginare...
Sì, per esempio nell'ultimo concerto a Milano abbiamo suonato con un quartetto d'archi e tutto era dal vivo. Non c'erano campionatori, drum machine, nemmeno sintetizzatori. Il nostro set era composto dal quartetto d'archi, un piano Fender Rhodes analogico, due chitarre, basso e batteria. E alla fine è ciò che serve per suonare la musica degli Hooverphonic.
L'anno prossimo saranno 25 anni da "The Magnificent Tree", il vostro album più famoso. Avete in progetto qualcosa?
Stiamo pensando a un tour per celebrare la ricorrenza e contiamo ovviamente di tornare anche in Italia.