PERSA UNA SUPERFICIE GRANDE COME TRE VOLTE LA FRANCIA

Giornata Internazionale delle Foreste: sempre più fragili, a causa nostra

In 30 anni persi 178 milioni di ettari di foreste.  L'Amazzonia è al limite: negli ultimi 50 anni convertito in coltivazioni o pascoli il 17% della sua superficie, con effetti a catena sul clima globale

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Coprono il 31% delle terre emerse del Pianeta, ospitando circa l’80% della biodiversità terrestre, forniscono servizi essenziali per le nostre vite e svolgono un ruolo cruciale nella mitigazione del cambiamento climatico. Le foreste sono habitat preziosi che ci ricordano come era il mondo quando l’essere umano non aveva ancora preso il sopravvento. Solo negli ultimi 30 anni sono stati persi 178 milioni di ettari di foreste a livello mondiale, tre volte la superficie della Francia. Un fenomeno conseguenza delle nostre azioni e consumi, con un effetto a catena sulla crisi climatica globale. 

Nella Giornata internazionale delle foreste, il 21 marzo come ogni anno, il WWF lancia l’allarme e ricorda l’importanza di questo ecosistema per le nostre vite, alleato indiscusso anche nella lotta al cambiamento climatico.  Per prima cosa ricordando che le nostre scelte e azioni quotidiane hanno un impatto sulla salute delle foreste e in vista di Earth Hour 2024, la mobilitazione globale del WWF che sabato 23 marzo dedica un’ora alla Terra, abbiamo l’occasione per proteggerle.

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La principale causa della deforestazione a livello globale, infatti, è l’espansione agricola per la produzione di soia, carne e olio di palma. A causa dell’espansione dell’agricoltura vengono convertiti ogni anno cinque milioni di ettari di foreste tropicali, in particolare per la produzione di carne bovina, olio di palma, soia, cacao, gomma, caffè e legno. Dalla produzione e dal commercio internazionale di questi prodotti deriva inoltre più di un terzo delle emissioni di CO2 causate dalla deforestazione.

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L’Amazzonia sempre più a rischio 

La foresta amazzonica è l’ecosistema maggiormente colpito: negli ultimi 50 anni è stato convertito in coltivazioni o pascoli ben il 17% della sua superficie (equivalente a due volte l’Italia). Se questo fenomeno arrivasse a colpire il 20-25% dell’Amazzonia, si pensa che la foresta non sarebbe più in grado di sopravvivere, trasformandosi in una savana arbustiva nel giro di pochi decenni. Nonostante questo, negli ultimi anni la tendenza non sembra migliorare: nel 2022 i disturbi forestali nella regione pan-amazzonica sono aumentati del 14,9% rispetto al 2021. La distruzione di questa preziosa foresta, anche chiamata il “polmone verde del pianeta” grazie alle ingenti quantità di gas serra che è in grado di assorbire dall’atmosfera ogni anno, sta avendo un impatto devastante anche sulla lotta alla crisi climatica globale. La sola foresta amazzonica immagazzina oltre 75 miliardi di tonnellate di carbonio (il totale nelle foreste mondiali sono 662 miliardi di tonnellate): non possiamo assolutamente permetterci di perdere l’Amazzonia e la sua capacità di assorbire CO2, nella lotta per evitare che il riscaldamento globale superi 1,5°C.

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Tuttavia, recenti studi hanno scoperto che la concentrazione di carbonio nell’atmosfera amazzonica è maggiore negli strati d’aria più vicini alle chiome degli alberi, contrariamente a quanto sempre creduto. Questo dato è preoccupante in quanto indica che in alcune aree l’Amazzonia emette più carbonio di quanto ne assorbe e immagazzina: l’emissione netta è di circa 300 milioni di tonnellate di carbonio l’anno, quanto ne emette la Francia nello stesso arco di tempo. Questo fenomeno è legato alla deforestazione ma anche agli incendi e alla siccità, piaga un tempo sconosciuta in Amazzonia. Ciò potrebbe avere effetti a catena su clima globale, in quanto se tutto il carbonio ora immagazzinato nella foresta amazzonica fosse rilasciato la temperatura media del pianeta aumenterebbe di 0,3 °C, rendendo impossibile raggiungere l’obiettivo posto dall’Accordo di Parigi.

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Il triste primato dei Paesi UE

Anche i cittadini italiani ed europei sono responsabili di questo fenomeno. L’Unione europea e l’Italia sono infatti tra i maggiori importatori di diversi prodotti causa di deforestazione quali caffè, carne, olio di palma e latticini, rendendo l'Ue responsabile del 16% della deforestazione globale associata al commercio internazionale di materie prime (secondo più grande importatore al mondo di deforestazione dopo la Cina). I soli consumi dei cittadini italiani causano ogni anno 36.000 ettari di foreste distrutte (due volte la città di Milano). 

I nostri consumi generano gravi ostacoli nella vitale lotta al cambiamento climatico: è indispensabile prestare attenzione a ciò che consumiamo anche se viviamo in paesi dove la deforestazione è trascurabile. La cosiddetta 'deforestazione incorporata', ovvero derivante dalla produzione di beni consumati in altri Paesi, contribuisce infatti a quasi l’80% della deforestazione mondiale, e parte di questa riguarda anche proprio i mercati alimentari dell’industria italiana - afferma Edoardo Nevola, responsabile Foreste al WWF Italia - Il ruolo di noi consumatori è centrale e solo utilizzando maggiore attenzione e responsabilità possiamo dare un contributo sostanziale, con un solo gesto, alla salute di questi ecosistemi, del clima e nostra: un modo è ad esempio informarsi tramite le etichette dei prodotti che vengono comprati per verificare la presenza di eventuali certificazioni e quindi capire se un prodotto proviene da foreste gestite responsabilmente”.   

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Una prima misura atta a ridurre significativamente l’impronta ecologica del commercio internazionale è il nuovo regolamento europeo contro la deforestazione (EUDR). Il regolamento riguarda 7 prodotti (soia, olio di palma, carne bovina, caffè, prodotti legnosi, prodotti stampati e la gomma) e i loro derivati che dal 30 dicembre 2024 potranno entrare sul mercato europeo solamente se le aziende saranno in grado di dimostrare che non sono causa di deforestazione. Ciò cambia le regole dei consumi in Ue: renderà obbligatori una serie di controlli annuali tramite la cosiddetta due-diligence per la quale le aziende importatrici dovranno tracciare i prodotti fino al luogo di produzione e tutte le fasi della catena di approvvigionamento.

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