
Nonostante l'industria italiana contribuisca al Pil nazionale "solo" per il 21%, tra il 2007 e il 2022 il valore aggiunto reale dell'attività manifatturiera italiana è sceso dell'8,4%. Lo ha riferito l'Ufficio studi della Cgia, che ricorda che dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, gli ultimi 15 sono stati gli anni più difficili per la gran parte dei Paesi occidentali. La grande recessione del 2008-2009, la crisi dei debiti sovrani del 2012-2013, la pandemia del 2020-2021 e l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia avvenuta nel febbraio 2022 hanno profondamente cambiato il volto della nostra economia.
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Nello stesso periodo, la Cgia riferisce che il valore aggiunto reale dell'industria è diminuito in Francia del 4,4% e in Germania addirittura del 16,4%. È comunque utile evidenziare che tra il 2019, anno che precede lo scoppio della più grande crisi economico-sanitaria avvenuta a partire dal secondo Dopoguerra, e il 2022, il settore manifatturiero italiano ha realizzato un rimbalzo superiore a quello registrato nel resto degli altri principali Stati Ue.
Da una crisi all'altra -
Secondo la Cgia, se allarghiamo il periodo di osservazione partendo dalla crisi finanziaria dei mutui subprime, non abbiamo ancora recuperato il terreno perduto. "Se invece restringiamo il campo a partire dalla crisi pandemica esplosa quattro anni fa, nessun'altra grande manifattura europea. Pertanto, è verosimile ritenere che le crisi 2008-2009 e 2012-2013 abbiano sicuramente ridotto e fiaccato la platea delle imprese manifatturiere presenti in Italia, ma abbiano rafforzato la tenuta e le performance di quelle rimaste sul mercato che, rispetto alle concorrenti straniere, hanno superato con maggiore slancio gli effetti negativi provocati dalla crisi pandemica del 2020-2021. Il successo registrato soprattutto in questi ultimi due anni dai nostri prodotti made in Italy in tutti i principali mercati mondiali è, di fatto, la conferma della tesi appena esposta".
Dal petrolio al gas, dalla chimica agli alimenti -
Il comparto che nell'industria italiana ha subito la contrazione negativa del valore aggiunto più pesante in questi ultimi 15 anni è stato il carbon coke e la raffinazione del petrolio (-38,3%). Seguono il legno e la carta (-25,1%), la chimica (-23,5%), le apparecchiature elettriche (-23,2%), l'energia elettrica e gas (-22,1%), i mobili (-15,5%) e la metallurgia (-12,5%). Per contro, invece, i settori che esibiscono una variazione anticipata dal segno più sono i macchinari (+4,6%), gli alimentari e bevande (+18,2%) e i prodotti farmaceutici (+34,4%). Tra tutte le divisioni, la maglia rosa è ad appannaggio dell'estrattivo che, sebbene possegga un valore aggiunto in termini assoluti relativamente contenuto, in 15 anni ha registrato un incremento spaventoso pari al 125%.
L'industria italiana, da Nord a Sud -
Sempre tra il 2007 e il 2022, il valore aggiunto reale dell'industria del Mezzogiorno è crollato del 27%, quello del Centro del 14,2% e del Nord-Ovest dell'8,4%. Solo il Nord-Est ha registrato un risultato positivo che ha toccato il +5,9%. A livello regionale sono le imprese della Basilicata ad aver registrato la crescita del valore aggiunto dell'industria più importante (+35,1%). Risultato che secondo l'Ufficio studi della Cgia è in massima parte ascrivibile agli ottimi risultati conseguiti dal settore estrattivo, grazie alla presenza di Eni, Total e Shell nella Val d'Agri e nella Valle del Sauro. In seconda posizione si colloca il Trentino-Alto Adige (+15,9%) che ha potuto contare sui risutlati del settore agroalimentare, della distribuzione di energia, delle acciaierie e delle imprese meccaniche. In terza posizione, invece, scorgiamo l'Emilia Romagna (+10,1%) e appena fuori dal podio il Veneto (+3,1%). Dal quinto posto in poi tutte le regioni italiane presentano una variazione di crescita del valore aggiunto negativa. Le situazioni più critiche si sono verificate in Calabria (-33,5%), in Valle d'Aosta (-33,7%), in Sicilia (-43,3%) e in Sardegna (-52,4%).
La città più industrializzate d'Italia -
Sempre secondo la Cgia, a livello provinciale Milano (con 28,2 miliardi di euro di valore aggiunto nominale nel 2021) rimane l'area più "manifatturiera" del Paese. Seguono Torino (15,6 miliardi), Brescia (13,5 miliardi), Roma (12,1 miliardi) e Bergamo (11,9 miliardi). Delle prime dieci province più industrializzate d'Italia, sette si trovano lungo l'autostrada A4. Tra tutte le 107 province monitorate, quella che tra il 2007 e il 2021 ha registrato la crescita del valore aggiunto industriale nominale più elevata è stata Trieste (+102,2%). Subito dopo scorgiamo Bolzano (+55,1%), Parma (54,7%), Forlì-Cesena (+45%) e Genova (+39,5%). I territori, invece, dove le perdite di valore aggiunto sono state più importanti hanno interessato Sassari (-25,9 per cento), Oristano (-34,7%), Cagliari (-36,1%), Caltanissetta (-39%) e Nuoro (-50,7%).