Russia, Turchia e Cina contro Occidente: la nuova spartizione dell'Africa
Cosa sta succedendo in Africa? La sfida globale tra le potenze si concentra a sud del Mediterraneo, tra dismissione dell'impegno francese e occidentale e penetrazione dei "nuovi" imperi. Guida ai nuovi equilibri mondiali nel caos dal Sahel al Maghreb
Il futuro del mondo si decide in Africa. Quell'Africa che l'Occidente capisce sempre più di aver "perso", dopo averla smembrata, invasa, sfruttata, controllata e legata a sé a doppio filo per decenni, anche dopo il processo di decolonizzazione della seconda metà del Novecento. Bollandola in gran parte come Terzo Mondo ancora oggi e non riconoscendone il rinnovato protagonismo geopolitico (seppur "manovrato"), Usa ed Europa non hanno decifrato la nuova postura degli Stati di Maghreb e Sahel, sprofondati in un caos di instabilità e violenza per il vuoto di potenza lasciato dai vecchi imperi coloniali. Vuoto riempito prontamente da imperi "nuovi", ma sempre "antichi" nella loro missione di dominio universale: Russia, Cina e Turchia. Una nuova spartizione dell'Africa basata non più sulla conquista territoriale, ma sulla penetrazione economica, culturale e istituzionale. Snodo nevralgico della contro-globalizzazione a trazione cinese, col fronte Brics pronto a espandersi a sud del Mediterraneo per realizzare il progetto multipolare di un Sud Globale contro Usa, Ue e Nato, che nel frattempo convogliano impegno e risorse in Ucraina.
In Italia lo sappiamo tragicamente molto bene: il caos all'altro capo del Mediterraneo è una minaccia per l'intero sistema-mondo. E non solo per il dramma umano degli infiniti e mortali flussi migratori, che si infrangono contro i nazionalismi europei e la sostanziale flemma statunitense nell'area. Ma anche perché l'Africa è sempre più l'estesa fucina di un sentimento anti-occidentale crescente, cavalcato e fomentato dalle potenze antagoniste dell'egemonia Usa, in primis la Russia.
La presenza militare occidentale Con la quasi compiuta estromissione della Francia dalle sue ex colonie, nelle quali aveva continuato a mantenere basi militari e influenza, proponendosi come naturale propagine del continente per élite e classi dirigenti africane, unica via per il successo individuale e per il progresso delle instabili società locali. Parigi mantiene oltre 4mila militari tra Senegal (350), Costa d'Avorio (950), Niger (1.100), Gabon (350) e Gibuti (1.500). Tanti, ma mai quanto quelli americani, il cui Africom (African Command) conserva i suoi quartier generali in Germania e a Napoli e dispiega 7.200 militari e 27 basi in terra africana. Undici di queste sono enduring (permanenti), sparse fra Senegal, Burkina Faso, Niger, Ciad, Ghana, Uganda e Kenya. Altre 16 svolgono funzione di contingenza in Tunisia, Mali, Niger, Tripolitania, Ciad, Somalia, Camerun e Uganda.
La fine della Françafrique La crisi dell'influenza occidentale in Africa è evidente nella crisi della cosiddetta "Franciafrica", la rete di relazioni neocoloniali che Parigi ha stretto con le ex colonie e in generale coi Paesi francofoni all'indomani dell'indipendenza dei singoli Stati africani. L'espressione risale al 1955, quando l'allora presidente della Costa d'Avorio, Félix Houphouët-Boigny, volle dare un nome all'aspirazione di diversi dirigenti africani di conservare delle relazioni privilegiate con la Francia. Il golpe in Niger, dopo quelli in Mali e Burkina Faso (che con il leader Traoré ha di fatto "cacciato" i francesi), ha segnato in qualche modo la fine di questo progetto, sfociato nel suo opposto. Il Niger rappresenta(va) di fatto "l'ultimo avamposto occidentale nel Sahel", la cui crisi è conseguenza diretta e amplificata della crisi in Libia scatenata negli Anni Quaranta proprio dalla Francia, poi deflagrata nel 2011 con l'uccisione di Gheddafi. Da allora il jihadismo salafita si è imposto nel Fezzan libico, cuore strategico delle rotte attraverso il deserto, per poi espandersi in tutta la fascia sub-sahariana, facendo esplodere definitivamente il tritolo geopolitico sparso dagli occidentali. La velleità francesi nell'area si sono spente col fallimento definitivo delle operazioni Takuba (giugno 2022) e Barkhane (novembre 2022) in Ciad.
La crisi dell'Occidente (e dell'Italia) dalla Libia al Sahel Con la decisione degli Stati Uniti di "alleggerire" la presenza nel Mediterraneo per proiettarsi più convintamente nell'Indo-Pacifico, all'epoca di Obama, anche il resto dell'Occidente ha mollato la presa sull'Africa. Compresa l'Italia, che in Libia conservava un'indubbia influenza per passato coloniale e legami culturali, certificata dagli accordi di Bengasi del 2008: Roma garantiva riparazioni e supporto internazionale, in cambio di gas e controllo dei flussi migratori. Francia e Regno Unito, guidate dagli Usa, hanno però scelto di usare le primavere arabe del 2010-2011 per estremottere Gheddafi, dissolvendo così anche l'influenza italiana sul Nordafrica. Gli occidentali non avevano realizzato alcun piano preciso sul "dopo". La Libia venne divisa in due e finì in mano agli avversari dell'Occidente, le contrapposte Russia (in Cirenaica) e Turchia (in Tripolitania), che hanno così potuto ricattare l'Ue sul fronte migranti, aprendo i rubinetti dei traffici di esseri umani a loro piacimento e senza troppi scrupoli. L'instabilità libica ha generato e moltiplicato quella dell'adiacente Sahel, ingigantendo la porzione di "terra di nessuno" in mano a estremisti, gruppi paramilitari stranieri, tribù, milizie Tebu, tuareg e alleati. Prima di venire travolto dalla nuova ondata anticoloniale esplosa coi colpi di Stato del 2020-2023, l'Occidente ha inoltre fornito il know-how militare agli africani. L'Italia stessa ha provveduto ad addestrare circa 10mila militari del Niger, tra cui un reggimento di paracadutisti (il 322esimo) che hanno partecipato al golpe.
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