Se inizialmente attorno ai videogiochi si aggiravano sospetti e diffidenze, da qualche anno il medium è diventato oggetto di studi e ricerche, né sono mancate le analisi comparative con altri mezzi di comunicazione apparentemente simili. Come spesso succede nella rubrica Cortocircuiti Pop, il primo pensiero va al cinema, e in effetti non si può negare che diversi game designer abbiano guardato alla settima arte nell’elaborare le loro creazioni.
Ciò succede sia a livello di trama, sia di messa in scena, come dimostrano le soluzioni registiche dei primi capitoli di Alone in the Dark e Resident Evil.
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Anche il linguaggio televisivo viene spesso chiamato in causa, se non addirittura preferito nel confronto per via di una circostanza piuttosto interessante: normalmente, infatti, i prodotti televisivi e i videogiochi non vengono consumati sul grande schermo, bensì su monitor, e per quanto possa sembrare un dettaglio, ragionare su uno spazio anziché su un altro incide a monte sul processo creativo. Del resto le produzioni televisive tipicamente adoperano soluzioni diverse da quelle cinematografiche (illuminazione, composizione, profondità di campo e così via), e lo stesso vale per i contenuti interattivi.
Nel corso degli ultimi venticinque anni, inoltre, la regia degli eventi sportivi trasmessi in televisione ha dialogato spesso con quella dei videogiochi, mutuandone a seconda dei casi dinamiche e interfacce per poter comunicare meglio col pubblico; si vedano l’esibizione a schermo di risultati e informazioni nelle partite di calcio o di basket, oppure le riprese dall’abitacolo nelle gare di Formula 1. In parecchi casi è difficile stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina, e senz’altro il movimento non è stato unidirezionale; tuttavia, per quel che vale, diversi videogiocatori degli anni Novanta trasecolarono quando, durante una radiocronaca, i membri della Gialappa's Band paragonarono le riprese di una partita di calcio a Kick Off 2.
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Naturalmente lo stesso sport è stato sensatamente accostato ai videogiochi in via delle comuni meccaniche e dei sistemi di regole, come pure il teatro, che a sua volta condivide col medium interattivo una forte componente rituale nonché l’irripetibilità della performance: ogni rappresentazione è diversa dall’altra, e lo stesso si può dire delle "partitelle". Oltretutto moltissimi giochi - digitali o della tradizione popolare, cambia poco - rappresentano la "degenerazione" di riti antichissimi, mentre i primissimi esempi di level design, ossia la disciplina deputata alla progettazione di spazi ludici, sono nati in seno a contesti sacri.
Poco alla volta tutte queste aree problematiche, labirintiche, destinate a essere risolte attraverso gli sforzi di uno o più fruitori, dal rito si sono spostate altrove; per esempio nelle cattedrali medioevali "travestite" da percorsi di preghiera e purificazione, o nei giardini rinascimentali, per poi infilarsi nei giochi propriamente detti. In effetti, volendo ampliare un po’ il discorso questo spiega tanto la diffusione quanto l’efficacia delle narrazioni di stampo mitologico e folclorico all’interno dei videogiochi: in fondo, sono grossomodo le stesse che nel passato contribuivano a descrivere i suddetti rituali.
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Proprio l’aspetto spaziale rappresenta forse il più interessante nel merito dei cosiddetti "game studies". Il videogioco visto non soltanto come veicolo per narrazioni o rielaborazione interattiva di cinema e televisione, bensì prioritariamente come luogo; un tunnel o un luna park a seconda del grado di libertà applicato, ma in ogni caso un "dove", prima ancora che un "cosa". Giocando vengono macinati chilometri, poco importa se digitali; parliamo di una frontiera potenzialmente illimitata che contempla città, paesi, mondi e persino sistemi solari sempre più vivi e verosimili, ormai lontani anni luce dalle rappresentazioni simboliche degli anni Settanta e Ottanta, senza contare le implicazioni legate alla realtà virtuale.
Sempre lo spazio o, meglio, la sua privazione, è all’origine di moltissime esperienze di gioco. Serie come The Legend of Zelda o Pokémon sono state ispirate dalla necessità di elaborare luoghi nuovi e incontaminati nei quali riversare le scorribande all’aria aperta, in un Giappone dove, a partire dagli anni Sessanta, è in corso un processo di sviluppo urbano che ha privato molti ragazzini di boschi e giardini buoni per inventarsi avventure (The Legend of Zelda) o collezionare insetti (Pokémon).
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In effetti, si potrebbe addirittura osservare come diverse altre scelte praticate da Nintendo siano nate dalla necessità di rimodulare ludicamente lo spazio, si pensi alla celeberrima console Wii o soprattutto alla periferica Balance Board, che risponde a questa esigenza: da un giorno all’altro i videogiocatori di tutto il mondo potevano praticare jogging, tennis o altre attività fisiche in casa propria con la sensazione di essere all’aperto, e oggi possiamo fare lo stesso con Ring Fit Adventure, su Nintendo Switch, senza contare applicazioni destinate alla realtà virtuale come Eleven Table Tennis, sviluppato da For Fun Labs.
La riscoperta della fisicità da parte di game designer e creatori di hardware ha avuto un suo apice più o meno quindici anni fa, quando sembrava che dispositivi come Wiimote o Kinect avrebbero sostituito i controller classici; fortunatamente non è andata così, tuttavia certe pratiche continuano a sopravvivere in determinate nicchie o, di nuovo, nella realtà virtuale. A non essere mai passate di moda, di contro, sono le implicazioni spaziali dei videogiochi, soprattutto in un periodo come questo, in cui nessuno sembra disposto a sacrificare le meccaniche open world; anche se, come sempre, probabilmente il meglio deve ancora venire.