The Last of Us: piccoli videogiocatori crescono
L'adattamento tratto dall'esclusiva PlayStation sviluppata da Naughty Dog ha dimostrato che i videogiochi possono funzionare anche in tv
Tra le migliori serie TV della scorsa stagione sarebbe impossibile non citare The Last of Us, che con 24 nomination - compresa quella per la miglior serie drammatica - "rischia" di fare incetta di premi agli Emmy Awards recentemente rinviati a data da destinarsi. Il merito è di una storia e di un cast azzeccati, della messa in scena e, naturalmente, della sceneggiatura affidata a Craig Mazin ("Chernobyl") e Neil Druckmann, creative director del gioco di Naughty Dog.
Videogioco che, a sua volta, rappresenta uno di quei casi relativamente rari di perfetta intersezione tra qualità, capacità di afferrare lo spirito del tempo e attitudine del pubblico di riferimento, meritandosi senz’altro un piccolo approfondimento.
Per chi non conoscesse la saga di The Last of Us, originariamente uscita su PlayStation 3 nel 2013, la trama è ambientata negli Stati Uniti di un 2033 distopico in cui la mutazione di un particolare genere di funghi, il Cordyceps, ha trasformato buona parte degli esseri umani in creature aggressive e prive di coscienza, costringendo i superstiti a rifugiarsi all’interno di città-fortezza presiedute dalle forze armate, o chi per loro.
Si tratta, al netto della trovata "fungina", di una variazione sul tema degli zombi beatificato al cinema da George A. Romero, e a seguire declinato da moltissimi autori con esiti più o meno riusciti; di contro, con il suo racconto interattivo Druckmann non entra nel merito delle circostanze politiche e sociali del caso o, meglio, non direttamente, preferendo principalmente concentrarsi su una vicenda apparentemente piccolissima e quasi archetipica in nome della sua poetica a base di "storie semplici e personaggi complessi".
Per la maggior parte del tempo il giocatore è chiamato a interpretare il ruvido Joel Miller (Pedro Pascal, nella serie TV) lungo una missione di contrabbando tra il Massachusetts e lo Utah; niente di così incredibile, nell’ottica di un mondo in quelle condizioni, se non fosse che il "pacco" da consegnare indenne è la quattordicenne Ellie Williams (Bella Ramsey, sempre nella serie), apparentemente l’ultima speranza per l’umanità in quanto immune al suddetto virus.
Il fascino del videogioco - un ibrido tra gioco d'azione stealth e survival horror ricco di situazioni avvincenti e ambientazioni fascinose - è largamente legato all’abilità, da parte degli autori, di far emergere poco alla volta tutta l’umanità dei protagonisti attraverso dialoghi e sottintesi vari, ma soprattutto a una meccanica di accudimento capace di suggerire dinamiche genitoriali.
Naturalmente The Last of Us non è stato il primo videogioco della storia a schierare qualcosa del genere, anzi: prendendola alla largissima, potenzialmente qualunque esperienza cooperativa può essere soggetta a determinati sviluppi, persino un picchiaduro come Golden Axe (1989), se il giocatore più forte decide di prendersi cura del più debole, magari cedendogli un bonus.
Più rare, tuttavia, appaiono le situazioni dove tale dinamica viene gestita consapevolmente dai designer per innescare reazioni emotive: si pensi a Fumito Ueda, che in Ico e The Last Guardian chiede all’utente di accudire rispettivamente una misteriosa fanciulla e un enorme, adorabile animale, fermo restando che in entrambi i casi l’oggetto della protezione non è mai inerme, ma contribuisce attivamente all’esecuzione delle meccaniche (esattamente come la stessa Ellie). Detto ciò, Druckmann si spinge ancora oltre in termini narrativi e, se vogliamo, "anagrafici", laddove Joel non è un ragazzino come nelle opere di Ueda, bensì un uomo adulto; di più, un genitore, che dopo aver perso tragicamente la figlia sviluppa un legame paterno dei confronti della ragazzina.
Si è parlato di archetipi, ma anche lasciando stare mito e folclore, nel DNA di The Last of Us è possibile identificare tracce de "La strada", di Cormac McCarthy, e de "I figli degli uomini", di Alfonso Cuarón, entrambi usciti nel 2006 (un caso?); tuttavia, a parità di contesto la differenza tra dette opere risiede - finalmente ci siamo arrivati - nel pubblico di riferimento e, per estensione, nello spirito dei tempi.
McCarthy e Cuarón parlano rispettivamente attraverso un romanzo e un film, quindi possono tecnicamente contare su una platea potenzialmente più vasta, ma soprattutto più matura, mentre Druckmann - classe 1978 - si serve del videogioco per rivolgersi a chi, come lui, è cresciuto a suon di cartucce e dischetti, e ha ormai abbastanza anni sul groppone da aver sperimentato la maternità o la paternità, o perlomeno essersi confrontato in qualche modo con la faccenda in modo da risuonare con Joel (Ellie, invece, è personaggio inevitabilmente universale, dal momento che tutti siamo stati, e saremo sempre, figli).
È interessante prendere atto di una scelta tanto generazionale, e allo stesso tempo osservare che, dopo o a ridosso di The Last of Us, dalla cosiddetta "cultura nerd" sono sgorgate opere come "Logan - The Wolverine", "La terra dei figli", "The Mandalorian" (quest’ultimo, tra l’altro, sempre con Pascal nel ruolo di "genitore putativo") o "Spider-Man: Un nuovo universo", in cui il comune denominatore è rappresentato dall’elaborazione di quell’esperienza genitoriale tipicamente appannaggio "dei grandi".
In parte c’è di mezzo il mercato, naturalmente, d’altro canto la tentazione di riconoscere a un videogioco il merito di aver sturato questo passaggio verso l’età adulta resta irresistibile, e tutt’altro che fuori luogo.
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