I risultati della ricerca

Parkinson, l'esercizio fisico difende il cervello e frena il decorso della malattia

Lo studio di Università Cattolica e Policlinico Gemelli di Roma dimostra che allenarsi in maniera intensa e costante può rallentare i danni ai neuroni 

© IGN

Il decorso del morbo di Parkinson potrebbe rallentare grazie all'attività fisica che "protegge" il cervello. Un allenamento intenso e regolare consente, infatti, di contrastare i danni ai neuroni tipici della patologia. Lo suggerisce una ricerca dell'Università Cattolica e del Policlinico Gemelli di Roma, coordinata dal neurologo Paolo Calabresi e pubblicata sulla rivista Science Advances. Il lavoro è stato realizzato in collaborazione con l'Università telematica San Raffaele di Roma e l'Università degli Studi di Milano. 

Esperimento sui topi -

 Lo studio mostra gli effetti dell'esercizio fisico regolare e intenso sui topolini con la malattia, che, con un tapis roulant, si sono allenati tutti i giorni per un mese. Si è visto che in risposta all'esercizio nel cervello dei topi aumenta la produzione di un elemento fondamentale per la sopravvivenza dei neuroni, il brain-derived neurotrophic factor (BDNF).

Proteina che danneggia neuroni ridotta -

 Il BDNF fa sì che l'attività fisica abbia un effetto benefico a livello cerebrale e quindi comportamentale. Infatti i ricercatori hanno osservato la riduzione di una proteina, l'alfa-sinucleina, che nel Parkinson porta alla degenerazione delle cellule nervose di alcune aree cerebrali. L'attività motoria protegge il cervello grazie al fatto che i neuroni possono continuare a svolgere la loro funzione, aspetti altrimenti compromessi dalla malattia. Anche il controllo dei movimenti e la capacità visiva risultano intatte negli animali sottoposti ad allenamento intenso.  

Nuove cure possibili - "Abbiamo scoperto un meccanismo attraverso cui l'esercizio fisico in fase precoce del Parkinson induce effetti benefici sul controllo dei movimenti, che continuano nel tempo anche dopo l'interruzione dell'allenamento. Questo nuovo meccanismo potrebbe portare allo sviluppo di trattamenti non-farmacologici da adottare in combinazione a farmaci", sottolinea Calabresi. 

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