Su una grande e spessa rubrica sgualcita, incerottata e ingiallita per il tempo e per l’usura, alla lettera “C” si leggono uno dopo l’altro: Massimo Campigli, Carlo Carrà, Raffaele Carrieri. E se si scorrono le pagine compaiono tutti: Vincenzo Cardarelli, Giorgio de Chirico, Lucio Fontana, Achille Funi, Arturo Martini, Renato Guttuso, Mario Sironi e via così fino alla fine dell’alfabeto. Ogni voce è accompagnata da una successione di numeri, una sorta di codice personale che, in un linguaggio cifrato rivela di ciascuno la misura del collo, il girovita, la lunghezza di spalle, braccia e gambe, insomma le coordinate che servono per confezionare un abito o un cappotto su misura. Il sarto che per più di trent’anni ha redatto e aggiornato i "libri delle misure" è Adriano Pallini (1897 - 1955) che nel 1922, dopo la morte del padre, ha assunto la direzione dell’atelier in via dell’Orso a Milano (negli anni ’40 si trasferirà nell’attuale piazza Meda).
Quella di Pallini non è solo la storia di un’elevata sapienza artigianale (ha tagliato e cucito abiti anche per il presidente Gronchi, per la contessa Visconti di Modrone, per la contessa Borghini Baldovinetti e la principessa Ruspoli), ma l’avventura di un grande appassionato d’arte, disposto al baratto pur di andare incontro agli amici artisti, sempre a corto di contanti: "Non era il compratore di quadri, ma era il nostro amico" ricorda Corpora e De Chirico conferma: "Era noto come vero amico degli artisti". A lui potevano rivolgersi per un abito dal "taglio magistrale" (sono parole di Cardarelli), ma trovavano anche una spalla su cui appoggiarsi: "Era il confidente sicuro…, il conforto", confessa Sironi.
Nel tempo, al baratto si sono aggiunti gli acquisti, così i muri e le sale della sartoria, dell’abitazione (situata inizialmente in via dell’Orso, poi in via Quintino Sella e da lì, nel 1938, in via Fieno, per poi traslocare nel 1949 in un grande appartamento in piazza San Babila) e della villa di Ospedaletti si sono popolati di quadri e sculture scelti con gusto e lungimiranza.
Tra i più noti acquisti di Pallini figurano opere di Umberto Boccioni, Gino Severini, Giorgio Morandi, ma anche il Ritratto di Paul Guillaume (1916) di Amedeo Modigliani, oggi al Museo del Novecento di Milano, e Le figlie di Loth (1919) di Carlo Carrà, oggi al MART di Rovereto.
A trenta dei più significativi pezzi della collezione è dedicata la mostra "Adriano Pallini. Una collezione di famiglia" a Villa Necchi di Milano (fino all’8 ottobre). Il percorso parte proprio da un Ritratto di Adriano Pallini eseguito da Massimo Campigli nel 1934 e donato al FAI da Nicoletta Pallini Clemente, la figlia più piccola di Adriano, nel 2021. Adriano indossa una giacca color nocciola, una cravatta a righe verdi e con uno sguardo sereno e sincero guarda davanti a sé: "Tutte le volte che vado a trovarlo e mi soffermo a osservare la luce di quel suo sguardo che vede lontano - ci confida Nicoletta, - vi ritrovo una grande serenità e tenerezza, quella stessa dolcezza accudente che mi ha accompagnato per molti anni".
A questo si affiancano i ritratti di Marta (1940), di Adriana (1948) e di Nicoletta (1949), – rispettivamente la moglie e le figlie ancora bambine dell’artista -, sempre dipinti da Campigli. Sono poi da segnalare la scultura di Arturo Martini che ritrae Il poeta Cechov (1921-22), posizionata sulla consolle d’ingresso, la Signora con pelliccia (1920) di Piero Marussig e O la borsa o la vita (1944) di Fortunato Depero. L’elenco potrebbe continuare con Busto oro e nero (1938), una figura femminile in ceramica firmata da Lucio Fontana; una Natura morta (1940) di Filippo de Pisis con la dedica a Pallini sullo specchio; un inedito Ritratto di Adriano Pallini realizzato da Achille Funi tra il 1939 e il 1940 ed esposto alla Biennale del 1940; una bella Composizione (1947) di Mauro Reggiani e una Natura morta di Mario Raciti.
"Ai miei occhi di bambina – ricorda Nicoletta, che dal padre ha ereditato l’amore per l’arte - le opere di De Chirico e di Savinio, le tele di Mario Sironi, di Carlo Carrà, degli amici Achille Funi e Pompeo Borra che spesso venivano a casa, di Piero Marussig, così come le sculture di Arturo Martini, i bronzi di Giacomo Manzù e di Marino Marini e soprattutto i tanti quadri di Massimo Campigli, li vedevo in realtà come degli amici che abitavano tutti con noi quasi fossimo una grande famiglia. Per me, infatti, non erano semplici dipinti appesi alle pareti […], ma erano figure reali, presenze vive e concrete, sempre disponibili a intavolare una chiacchierata in qualunque momento della giornata. Anzi, quelle opere d’arte erano talmente familiari che molto presto iniziai un mio gioco personale e privato, spesso di nascosto, il che ai miei occhi rendeva il tutto ancora più magico. Intrattenevo con loro lunghe conversazioni e, in certi casi, attribuivo loro addirittura veri e propri gradi di parentela".
Era il "gioco dell’arte" e per lei "quelle opere sono state per molto tempo un invito al sogno, alla fantasia e alla poesia. E ancora oggi, ripercorrere quegli anni mi comunica una grande tenerezza e una grande gioia nella consapevolezza di aver vissuto una vita circondata da tanto amore per la bellezza".