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Venezia, la Cina abbandona la Biennale per il video sui campi di rieducazione dello Xinjiang

La decisione di Pechino arriva per la presenza all'Arsenale del progetto dell'architetta inglese Alison Killing, opera premiata con il Pulitzer nel 2021

Dobbiamo ringraziare il governo della più antica e popolosa dittatura del pianeta per non aver perso l'occasione di richiamare l'attenzione sul genocidio umano e culturale che la Repubblica Popolare Cinese compie da decenni nei confronti delle minoranze Uigure e Kazake che vivono al suo interno. E' notizia di queste ore la decisione di annullare l'inaugurazione del padiglione della Cina comunista prevista per il 22 maggio alla Biennale di Architettura di Venezia, nonché della cena di gala prevista all'hotel Ca' Sagredo. A causare il gesto cinese è stata la presenza all'Arsenale del progetto dell'architetta inglese Alison Killing, opera peraltro già premiata con un Pulitzer, il più importante premio in ambito giornalistico, nel 2021. Cosa c'entra l'architettura col giornalismo? Killing - il cognome ricorda quei fields in cui morivano altri asiatici, peraltro anch'essi grazie alla collaborazione della repubblica "Popolare" - ha usato le conoscenze utili a costruire edifici per rispondere a una domanda a cui i giornalisti non erano riusciti finora a trovare risposta; quanti e dove sono i prigionieri dei campi di concentramento cinesi.

Grazie alle fotografie riprese dai satelliti e alla lettura delle linee guida per la costruzione delle carceri è stato possibile identificare gli impianti. Una volta apparsa la storia, un giornalista cinese è riuscito di nascosto a filmarne uno, così da confermare con immagini migliori quanto documentato dall'alto. Ad aggiungere ulteriori conferme anche le testimonianze dei Kazaki che a differenza degli Uiguri hanno uno Stato in cui rifugiarsi quando vengono liberati.

Nella loro tecnicità, queste immagini sfocate di esseri umani in gigantesche file militari sono meno forti dei volti emaciati dei lager nazisti ma raccontano la stessa storia.

Facendo le somme risulta che un cittadino su 25 - se non c'è sovraffollamento - è detenuto in questi campi. Come se due milioni e mezzo di italiani fossero in prigione perché friulani o altoatesini. Altri lavori di grande giornalismo - come l'Infinito errore di Fabrizio Gatti - hanno svelato come i prigionieri politici in Cina siano sistematicamente sottoposti al furto di organi, pratica che ne comporta spesso la morte.

Quando le merci arrivano sulla morbida linea delle seta pretendiamo almeno di poter verificare che non siano state prodotte da prigionieri di questi campi.
Marco Di Gregorio