Matteo Messina Denaro, il boss di mafia catturato dopo 30 anni di latitanza, era ricercato dall'estate del 1993. L'ultima "primula rossa" di Cosa Nostra, 60 anni, è stato condannato all'ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell'acido dopo quasi due anni di prigionia, per le stragi del '92, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del '93 a Milano, Firenze e Roma. Per il suo arresto, negli anni, sono stati impegnati centinaia di uomini delle forze dell'ordine. Una latitanza record come quella dei suoi fedeli alleati Totò Riina, sfuggito alle manette per 23 anni, e Bernando Provenzano, riuscito a evitare la galera per 38 anni. Ecco chi è e perché la sua cattura è così importante.
Il boss che amava sparare - Enfant prodige del crimine, destinato per legami di sangue ad assumere un ruolo in Cosa nostra, ha sempre amato sparare. A 14 anni sapeva maneggiare le armi, a 18 ha commesso il primo omicidio. "Con le persone che ho ammazzato io, potrei fare un cimitero", aveva confidato a un amico. In linea con la strategia stragista dei corleonesi, dei quali, come suo padre, resterà sempre fedele alleato, è coinvolto nelle stragi del '92 in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un ruolo quello di Messina Denaro emerso solo quando la Procura di Caltanissetta, che ha riaperto le indagini sugli attentati, ha chiesto la custodia cautelare per il boss di Castelvetrano e a ottobre del 2020 lo ha fatto condannare all'ergastolo. Secondo gli investigatori sarebbe stato presente al summit voluto da Riina, nell'ottobre del 1991, in cui fu deciso il piano di morte che aveva come obiettivi i due magistrati.
I pentiti raccontano, poi, che faceva parte del commando che avrebbe dovuto eliminare Falcone a Roma, tanto da aver preso parte ai pedinamenti e ai sopralluoghi organizzati per l'attentato. Da Palermo, però, arrivò lo stop di Riina. E Falcone venne ucciso qualche mese dopo a Capaci. Un ruolo importante "Diabolik" lo ha avuto anche nelle stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano. Imputato e processato è stato condannato all'ergastolo per le bombe nel Continente.
La latitanza - La sua latitanza è cominciata a giugno del 1993. In una lettera scritta alla fidanzata dell'epoca, Angela, aveva preannunciato l'inizio della vita da Primula Rossa. "Sentirai parlare di me - le aveva scritto facendo intendere di essere a conoscenza che di lì a poco il suo nome sarebbe stato associato a gravi fatti di sangue - mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità".
Una pioggia di ergastoli - Il padrino trapanese nella sua carriera criminale ha collezionato decine di ergastoli. Oltre a quelli per le bombe del Continente, ha avuto il carcere a vita per il sequestro e l'omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito rapito da un commando di Cosa nostra, strangolato e sciolto nell'acido nel 1996 dopo quasi due anni di prigionia. Riconosciuto colpevole di associazione mafiosa a partire dal 1989, l'ultima condanna per mafia è a 30 anni di reclusione in continuazione con le precedenti. Il tribunale di Marsala per la prima volta gli ha riconosciuto la qualifica di capo nel 2012. E una pioggia di ergastoli il boss li ha avuti anche nei processi Omega e Arca che hanno fatto luce su una serie di omicidi di mafia commessi tra Alcamo, Marsala e Castellammare tra il 1989 e il 1992.
Il boss "fantasma" - Messina Denaro gestiva un potere infinito ma viveva come un fantasma, anche se la sua invisibilità non gli ha impedito di diventare padre due volte. Di una figlia si sa tutto: il nome, la madre, le scelte che l'hanno portata a separare la propria vita dall'ombra pesante di un padre che forse non ha mai visto. Ha trascorso l'infanzia e l'adolescenza in casa della nonna, poi con la madre ha cambiato residenza: non è facile convivere con lo stress delle perquisizioni, dei controlli e delle irruzioni della polizia. Dell'altro figlio si sa invece quel poco che è trapelato dalle intercettazioni: si chiama Francesco, come il vecchio patriarca della dinasty, ed è nato tra il 2004 e il 2005 in quel lembo della provincia di Trapani, fra Castelvetrano e Partanna, dove Messina Denaro ha costruito il suo potere economico e criminale.
Attento a gestire la sua latitanza, e a proteggerla con una schiera di fiancheggiatori, uno dei boss più ricercati del mondo ha lasciato di sé solo l'immagine di un implacabile playboy con i Ray Ban, le camicie griffate e un elegante casual. E dietro questa immagine ormai scolorita una scia di leggende: grande conquistatore di cuori femminili, patito delle Porsche e dei Rolex d'oro, maniaco dei videogiochi, appassionato consumatore di fumetti. Di uno soprattutto: Diabolik, da cui ha preso in prestito il soprannome insieme a quello con il quale lo chiamavano i suoi fedelissimi. Un altro ancora glielo hanno affibbiato i suoi biografi "U siccu": testa dell'acqua, cioè fonte inesauribile di un fiume sotterraneo.
Anche nei soprannomi Messina Denaro impersonava il doppio volto di un capo capace di coniugare la dimensione tradizionale e familiare della mafia con la sua versione più moderna. Il padrino di Castelvetrano si è sempre mosso tra ferocia criminale e pragmatismo politico. Per questo è stato considerato l'erede di Bernardo Provenzano ma soprattutto del padre don Ciccio, altro boss della nomenclatura tradizionale morto da latitante nel 1998. Quando il vecchio patriarca scomparve, del giovane Matteo si erano perse le tracce già da cinque anni, nel 1993, prima ancora che fosse coinvolto nelle indagini sulle stragi di quegli anni. E da allora Diabolik era sempre riuscito, a volte con fortunose acrobazie degne dell'imprendibile personaggio del fumetto, a sfuggire ai blitz. Su di lui era stata posta una taglia da un milione e mezzo, ma per fargli attorno terra bruciata gli investigatori hanno stretto in una tenaglia micidiale la rete dei fiancheggiatori.
Neanche i suoi familiari sono stati risparmiati: la sorella Patrizia, arrestata e accusata di avere gestito un giro di estorsioni, il fratello Salvatore, i cognati, un nipote. E tanta gente fidata, costituita da prestanome spesso insospettabili, che hanno subito ripetuti sequestri patrimoniali. Il "fantasma" di Messina Denaro era inseguito da una montagna di mandati di cattura e di condanne all'ergastolo per associazione mafiosa, omicidi, attentati, detenzione e trasporto di esplosivo. Nei più gravi fatti criminali degli ultimi trent'anni è stata riconosciuta la sua mano.
Ma se la fama di uomo spietato gli viene riconosciuta qualche dubbio si è insinuato sulla sua reale capacità di ricostruire, dopo gli arresti di Totò Riina e di Bernardo Provenzano, la struttura unitaria di Cosa nostra intaccata dagli arresti e da un processo di frammentazione.