"La storia siamo noi" è il nuovo libro di Paolo Valenti, scrittore e giornalista sportivo, che ripercorre un secolo di competizioni mondiali, iniziate in Uruguay nel 1930. Un testo originale nell’impostazione, meticoloso, che raccoglie interviste e immagini, storie e gossip, risultati e commenti. Un libro capace di appagare gli appassionati, ma anche di appassionare chi invece si avvicina per la prima volta alla più incredibile favola scritta dal calcio negli ultimi cento anni. Un esempio fra tutti l'intervista a Mario Kempes, il campione argentino dei Mondiali 1978.
Lintervista a Mario Kempes estratta dal nuovo libro di Paolo Valenti - Mario Kempes fu l’eroe della nazionale argentina che nel 1978 conquistò il suo primo titolo mondiale, trascinando l’Albiceleste nella seconda fase del torneo. Oggi apprezzato commentatore televisivo, in questa intervista El Matador ricorda l'atmosfera che si respirava nel giugno del 1978 all’interno della Seleccion di Menotti.
Mario, sai che prima del mundial in Argentina alcuni non volevano che in nazionale andassero i calciatori che giocavano all’estero. Eri disturbato da quelle affermazioni?
No, non mi dava fastidio. In nazionale eravamo solo in tre a giocare all’estero, quindi non si può certo dire che l’Argentina avesse un numero esagerato di “stranieri”.
Qual era la squadra che temevate di più all’inizio di quel mondiale?
Temere nessuna. Direi più che altro che portavamo rispetto verso molte di quelle che avevamo avuto modo di veder giocare. Noi eravamo dei “novizi” in quel mondiale, nonostante qualcuno avesse già giocato in Germania nel 1974.
Quali furono i meriti di Menotti?
Io credo che Menotti abbia dovuto fare un gran lavoro per far capire alla gente che quella era la selezione migliore, nonostante nelle sette partite che facemmo non si vide un gran gioco. Quella era la formazione più equilibrata e alla fine lui riuscì a trovare il tipo di gioco che cercava.
Nonostante la pressione che dà un mondiale, riuscivate a scherzare, a trovare dei momento di svago?
Eravamo una squadra con molta meno esperienza di altre per cui non ci fu molto spazio per le risate. Tra un allenamento, la partita, il riposo dopo la partita e poi ancora l’allenamento successivo non avevamo materialmente il tempo per dedicarci troppo a scherzare.
Dopo la morte del fratello, come riuscì Luque a ritrovare la voglia di giocare con voi?
Tra l’appoggio che gli assicurammo noi e la grande forza interiore che aveva, Leopoldo riuscì a superare il lutto e a concentrarsi sulla competizione.
Bertoni, in un’intervista rilasciata poche settimane prima del mondiale, disse che aveva sognato di fare il gol decisivo nella finale. Era un aneddoto che aveva raccontato anche a voi?
Io non sapevo di quell’intervista perché allora non vivevo in Argentina, però pare che andò proprio così e che la sua “visione” spettacolare divenne realtà.
Cosa pensasti quando l’Olanda prese il palo al 90’?
Non avemmo modo di pensare a nulla visto che il tempo che intercorse tra il tiro e il momento in cui il pallone colpì il palo durò solo decimi di secondo. Fu come festeggiare un gol: per quello servono quarantacinque secondi mentre per festeggiare un palo avversario ne bastano dieci.
Cosa sarebbe successo se quel pallone fosse entrato? Sarebbe cambiato qualcosa anche dal punto di vista politico-sociale?
Io credo che il problema della vittoria dell’Olanda sarebbe stato unicamente sportivo, socialmente e politicamente non sarebbe cambiato nulla. Quello che sarebbe davvero cambiato è che noi adesso non saremmo qui a fare questa intervista.
Cosa daresti per rivivere quella notte?
Purtroppo non sono cose che si possono ripetere. Però credo che aver giocato la finale di un mondiale, averla vinta per l’Argentina ed aver segnato due gol, tutto in una sola notte, sia più che sufficiente!
Aveva un segreto la vostra nazionale?
Ci sarebbero molte cose di cui potrei parlare, però credo che fu importante per noi argentini rimanere concentrati esclusivamente sul futbol, parlare tutto il giorno solo di quello. In quel modo diventammo sempre più forti e credemmo sempre di più nel gruppo. Certo, l’eventualità della sconfitta rimaneva ma noi beneficiammo molto di quella “concentrazione”, tanto da diventare campioni.