"Ho cominciato come artista commerciale e voglio finire come artista del business". È con questa premessa che Andy Warhol (classe 1928) decide di sfidare il sistema dell’arte. Nei primi anni ’60 è un giovane pubblicitario di successo, lavora per importanti riviste patinate come New Yorker, Vogue e Glamour. Disegna scarpe e sogna di farsi strada nell’inarrestabile e travolgente delirio del boom economico. Non a caso, l’intuizione che lo renderà celebre e ricco gli arriva proprio dal linguaggio che usano i pubblicitari: ripetere un’immagine più volte, in modo da farla entrare per sempre nella mente della gente. Thirty Are Better Than One, la sua prima Monna Lisa ristampata ben trenta volte, da celebre ed esclusivo capolavoro d’arte, diviene un’opera di tutti e per tutti. "In Green Coca-Cola Bottles – scrive Edoardo Falcioni, curatore con Achille Bonito Oliva della bella mostra, 'Andy Warhol. La pubblicità della forma', allestita alla Fabbrica del Vapore di Milano e visitabile fino al 26 marzo 2023 – comprendiamo immediatamente che per l’artista è proprio la quantità a prevalere sull’originalità del soggetto raffigurato: è infatti ripetendo la stessa immagine che egli riesce a portare e mettere in scena il panorama consumistico nel mondo dell’arte: compito dell’artista non è più creare, ma riprodurre".
L'arte diviene quindi Pop (da "popular"). Travolta da un vero e proprio processo di democraticizzazione, i volti dei protagonisti ritratti (celebri icone del cinema, della politica o del jet set internazionale) ma anche gli oggetti di uso quotidiano (dalle lattine di zuppa Campbell, dal detersivo ai corn-flakes), vengono svuotati del loro significato, vestiti di colori sgargianti (gli stessi dei manifesti pubblicitari) e consegnati al mondo in una forma decisamente più comprensibile e accattivante.
Con le Brillo Box, sculture identiche alle scatole di pagliette saponate in vendita in tutti i supermercati americani, l’artista riuscì a valorizzare definitivamente le nuove forme di comunicazione di massa e saranno proprio queste opere a far scaturire in Arthur Danto, celebre filosofo che rimase ammaliato da queste creazioni, tutta la sua concezione sulla filosofia dell’arte, che ruota attorno ad una domanda fondamentale: che cos’è l’arte?. L’evento che rese queste opere tra le più celebri dell’intera storia dell’arte fu la personale del 1964 alla Stable Gallery di New York. Le scatole furono disposte nello spazio espositivo una sopra all’altra, proprio come se fossero state accattaste tra le corsie di un supermercato qualsiasi, ma contrassegnate da un valore aggiunto che le rende economicamente esclusive: la firma dell’artista.
Il celebre studio di Andy Warhol, The Factory, a New York era il place to be per creativi, star, registi, musicisti, ma le feste glamour durarono solo cinque anni e finirono con un’inaspettata tragedia: nel 1968 la radicale femminista Valerie Solanas, intrufolatasi nell’atrio del loft, sparò tre colpi di pistola al re della Pop Art, vendicandosi della mancata produzione di un dramma da lei ideato. Sopravvissuto per miracolo all’attentato, Warhol, all’inizio degli anni ’70, trasferì la sua Factory al numero 860 di Broadway, in un edificio con uscite e telecamere di sicurezza. A mutare, però, non fu soltanto l’indirizzo dello studio, ma anche e soprattutto il suo spirito originario. I bizzarri personaggi lasciarono il posto ad ambiziosi uomini in giacca e cravatta con la missione di trasformare la creativa e colorata bottega warholiana in un’azienda.
La mostra milanese con oltre 300 opere (tele, serigrafie su seta, cotone e carta, ma anche disegni, fotografie, dischi originali, T-shirt, il computer Commodore Amiga 2000 con le sue illustrazioni digitali – i primi NFT della storia – e la BMW Art Car dipinta da Warhol con il video in cui la realizzò, la ricostruzione fedele della prima Factory e una parte multimediale con proiezioni di film da vedere con gli occhialini tridimensionali), vuole documentare questo avvincente percorso: dagli oggetti simboli del consumismo di massa, ai ritratti dello star system degli anni ’60; dalla serie Ladies & Gentlemen degli anni ’70, dedicata alle drag queen, sino agli anni ’80 in cui diviene predominante il rapporto col sacro.