Il giorno in cui si celebra il funerale della madre di Tonino, la gente non parla d'altro che dell'attentato a Karol Wojtyla. Siamo in un paesino dell'entroterra siciliano: Tonino è un bambino di sette anni, curioso, intelligente e vitale, con una passione smodata per la Juventus. Ma la confusione e la rabbia che prova quel giorno scavano nel suo animo, lasciando cicatrici profonde. Tonino pare destinato al ruolo di vittima: non solo in quanto orfano, ma anche perché da lì a breve riceverà le attenzioni morbose di Padre Alfio.
In risposta agli abusi, e quasi obbedendo a un impulso autodistruttivo, Tonino rischia di diventare il carnefice di sé stesso. Mentre nel mondo di fuori si ragiona di guerra fredda e si festeggia il Mondiale dell'82, dentro di lui tutto sembra andare lentamente in frantumi: le amicizie, la bellezza dell'amore, la possibilità di un futuro, il rapporto con la famiglia. Del bambino che era non rimane che un'eco lontana, che Tonino crescendo faticherà ad ascoltare, perseguitato dal senso di colpa. La sua speranza di salvezza è Tania, la giovane vicina di casa che gli farà da seconda madre, una ragazza con uno spirito indomito e un passato burrascoso, nonché l'unica persona disposta a lottare perché Tonino abbia giustizia.
È la trama del romanzo d'esordio del giornalista palermitano Giovanni Di Marco, che prendendo come filo conduttore l'esperienza del protagonista riesce a far luce sul dramma, reale, delle vittime di abusi da parte di membri del clero e sull'ostinato quanto ingiustificabile silenzio che per anni protegge i carnefici, abbandonando le vittime al proprio destino. Un romanzo potente e coraggioso, capace di raccontare con ironia e leggerezza la perdita dell'innocenza, la ribellione e i tentativi di riscatto di un bambino diventato adulto troppo in fretta.
L'avversione di Tonino per i ceci e i polacchi
Giovanni Di Marco
Baldini+Castoldi
Pagine 432
20,00€
Un estratto per i lettori di Tgcom24
Avevo poco più di sette anni quando è morta mia madre. Non saprei dire chi mi portò la notizia, né come mi venne data. La dinamica di quella giornata che ha stravolto la mia esistenza è avvolta nel mistero. Del giorno del suo funerale, invece, la mia mente ha conservato ogni dettaglio. Ricordo la mattinata trascorsa a casa di Tania, in un silenzio triste, quasi irreale; il lungo corteo funebre verso la chiesa madre; le nuvole bianche e gonfie che si stagliavano all’orizzonte; l’odore nauseabondo dei crisantemi.
Tra i banchi sverniciati della Madrice, le persone erano stipate come acciughe sotto sale. C’era tutto il paese in chiesa, quel pomeriggio di metà maggio. Di fianco all’altare, i miei compagni di classe, accompagnati dalla maestra Miriam. Erano tutti belli ordinati, col grembiulino inamidato. Sul lato opposto, il sindaco e il dottore Lo Verde. E più indietro, sparpagliati qua e là, i miei vicini di casa e quelli del Bar della Gioventù. Avevano tutti gli occhi rossi.
Io ero seduto in prima fila ovviamente. Un enorme crocifisso di legno pendeva dall’alto, alle spalle del prete. Attorno alla bara una marea di fiori per lo più bianchi e rosa. Mi sentivo stanco, annoiato. Solo una volta prima di allora ero rimasto così a lungo dentro a una chiesa. L’anno prima, a Palermo, per il matrimonio di mio cugino Santino che mi aveva fatto fare il paggetto e mi aveva regalato una bicicletta: la mitica BMX.
Quando il prete sollevò il calice seguendolo con gli occhi, lo fissai meglio e mi convinsi che assomigliava a Ralph, il tizio coi capelli rossi di Happy Days. Solo che Padre Alfio era più vecchio di Ralph, portava lenti spesse e parlava con la lingua di pezza, come Gatto Silvestro.
«Prendete e bevetene tutti», disse con studiata lentezza. Poi sputacchiando aggiunse: «Questo è il mio sangue, versato per molti in remissione dei peccati».
Sangue, peccati.
Le parole del prete rimasero sospese nell’aria. Tutti erano assorti, con le mani congiunte, alcuni raccolti in ginocchio. Io osservavo la scena irrequieto. Mi voltavo a destra e a manca, e non vedevo l’ora che il funerale finisse. Avevo pianto così tanto in quei due giorni che lacrime non ne avevo quasi più. Ricordo che per un momento serrai gli occhi nella speranza di sparire e ritrovarmi nel mio letto. Così, per magia. Ma quando li riaprii, Padre Alfio era ancora lì, sudaticcio, immobile, col calice d’oro che sparava i suoi riflessi di luce ovunque.
All’improvviso il silenzio venne rotto da un cigolio. Era Ninì che sbucava dalla sagrestia, così agitato che avanzando inciampò sul tappeto cosparso di petali e per poco non cadde. La scena di per sé era comica, ma a nessuno scappò da ridere, perché Ninì aveva appena profanato la solennità dell’eucaristia. Scansando un chierichetto, il sacrestano puntò dritto verso Padre Alfio che, se avesse potuto, gli avrebbe mollato un ceffone di quelli che si ricordano a vita.
«Ma è uscito pazzo?» mormorò qualcuno dietro di me. Mio padre osservava tra il confuso e il curioso. Mia sorella, al suo fianco, guardava con occhi vuoti, da scema. Era sotto shock.
Poi Ninì infilò la notizia nell’orecchio del prete e Padre Alfio sbiancò. Smise di respirare. Abbassò il calice a rallentatore e fissò di nuovo Ninì.
«Ma che mi stai di-di-dicendo?» balbettò. Ninì non ebbe la forza di replicare. Fece soltanto avanti e indietro con il collo, un paio di volte, come una gallina. Nel frattempo il silenzio era diventato brusio, e un attimo dopo il brusio partorì l’unica domanda possibile.
«Padre Alfio, che successe?» chiese Fulvio, il carnezziere sciancato, dalla terza fila. La sua domanda era quella di tutti. Il brusio tornò a farsi silenzio. L’esercito di occhi si spostò di nuovo sul prete. Padre Alfio appoggiò il calice sull’altare e si lasciò cadere all’indietro, affossando le natiche sulla poltrona di damascato rosso. Una specie di mugolio si diffuse nell’aria. Mia zia, seduta accanto a me, ricominciò con la litania che avevo sentito un miliardo di volte negli ultimi giorni.
«Oh, cuore di Gesù… oh, cuore di Gesù…»
Il carnezziere mi passò accanto, strascinando la gamba offesa. Con un balzo inaspettato inghiottì due gradini e arrivò all’altare. Lo imitarono altri uomini e un paio di donne minute, vestite di nero. L’altare venne circondato. Mio padre non sapeva che fare.
«Ma che fu?» sussurrò a tutti e a nessuno.
Pure i pensieri trattenevano il fiato. Il trambusto durò un minuto scarso, finché Padre Alfio non riemerse dalla folla che lo attorniava per rispedire ognuno al proprio posto. Con movimenti nervosi si diede una sistemata alla veste: il palcoscenico era di nuovo tutto suo. Prima di aprire bocca, si esibì in un sospiro infinito che non aveva nulla a che vedere con le normali funzioni respiratorie. Quindi fece esplodere la notizia tra le navate.