Partygate, Boris Johnson si salva dalla sfiducia in casa Tory e resta premier: "Il governo va avanti"
Il "Confidence Vote" si conclude con 211 preferenze favorevoli e 148 contrari, delineando i contorni di una "vittoria mutilata" e di una spaccatura che minaccia ancora la poltrona di BoJo
Boris Johnson resta premier. Non passa la mozione di sfiducia votata a scrutinio segreto sulla sua leadership in seno al Partito Conservatore (da cui dipende la poltrona di primo ministro britannico), innescata dalla "rivolta" di una parte del gruppo di maggioranza in seguito allo scandalo Partygate. Sono stati 211 i voti a favore di BoJo, a fronte di ben 148 contrari. Una spaccatura che lo indebolisce politicamente e potrebbe non bastare a blindare la sua posizione nel prossimo futuro. La soglia di maggioranza richiesta era di 180 voti. "Un risultato convincente e decisivo, il governo va avanti", ha commentato Johnson.
In caso di sfiducia, Johnson avrebbe dovuto passare la mano a un successore interno alla forza di maggioranza, che a sua volta sarebbe stato eletto in una consultazione separata.
Prima del voto, in extremis ai deputati ribelli si era unito un membro junior del governo, il Tory scozzese John Lamont, annunciando il voto contro BoJo e dimettendosi dal ruolo di assistente della ministra degli Esteri, Liz Truss.
Un'anatra zoppa - Il risultato positivo del Confidence Vote consegna comunque al Regno Unito "un'anatra zoppa". Lasciano infatti ampi strascichi i malumori crescenti innescati dal cosiddetto Partygate, lo scandalo dei ritrovi organizzati a Downing Street fra il 2020 e il 2021 in violazione delle restrizioni anti-Covid imposte all'epoca dal governo a milioni di britannici. Scandalo che lo ha poi visto multato in prima persona dalla polizia e che sta penalizzando duramente i Tory nei sondaggi come nei test elettorali di questi mesi.
Lo scrutinio segreto sul suo destino immediato, consumato in due ore di votazione fra i 359 deputati della super maggioranza conquistata alla Camera dei Comuni nel dicembre 2019, ha decretato una vittoria mutilata. Addirittura un salasso, se si considera che la fiducia di un centinaio di grandi elettori appariva blindata in partenza, trattandosi di ministri, sottosegretari o titolari d'incarichi governativi junior "a libro paga" del suo gabinetto.
"L'inizio della fine" lo hanno definito alcuni commentatori, che notano come il dissenso sia stato in proporzione superiore a quello inflitto nel 2018 a Theresa May, che pure se la cavò, ma dovette dimettersi cinque mesi dopo. O a Margaret Thatcher, che nel 1990 - offesa dal tradimento di piu' franchi tiratori di quanto non si aspettasse - getto' alla fine la spugna nel giro di poche ore.
Il voto era divenuto inevitabile in base allo statuto Tory dopo il raggiungimento del quorum di almeno 54 lettere di sfiducia (il 15% del totale del gruppo attuale) affidate al Comitato 1922, l'organismo parlamentare interno che da un secolo sovrintende alle rese dei conti di un partito tradizionalmente spietato nel cesaricidio. Una svolta annunciata da sir Graham Brady, il deputato che ha presideuto questo sinedrio. Ma comunicata fin dalla scorsa settimana da Brady a BoJo, a margine della conclusione trionfale del Giubileo di Platino dei 70 anni sul trono della 96enne Elisabetta II (sotto il cui scettro sono già passati 14 primi ministri). Con la massima cura a non formalizzare nulla sino alla fine dei festeggiamenti per non strappare i riflettori a Sua Maestà, dopo che il primo ministro era stato già fischiato dalla gente in occasione di uno degli eventi della celebrazione.
Il buon viso a cattivo gioco di Johnson - Il premier britannico, forte della nomea di "survivor" della politica britannica, ha provato comunque a fare buon viso a cattivo gioco. Ha fatto dire a una portavoce di sentirsi sollevato da una conta in grado se non altro di "offrire l'occasione di porre fine a mesi di congetture e di permettere al governo di mettere un punto (sul Partygate), per passare a occuparsi delle vere priorità della popolazione".
La strategia del premier - Johnson ha preso atto del sostegno pubblico - più o meno convinto - di tutti i suoi ministri di punta. Inclusi coloro che vengono indicati dai media come potenziali aspiranti a succedergli, dalla titolare degli Esteri, Liz Truss, a quello della Difesa, Ben Wallace. Ha lasciato che i fedelissimi replicassero a muso duro quelle che egli stesso ha poi definito "le insensate polemiche fratricide" di ribelli di primo piano come l'ex ministro ed ex rivale per la leadership, Jeremy Hunt. Ha ignorato per un giorno gli attacchi dell'opposizione laburista di Keir Starmer. Ha incassato le lodi a orologeria di Volodymyr Zelensky e di altri leader dell'Europa orientale che lo identificano come capofila della sfida alla Russia di Vladimir Putin in Occidente, nel pieno della guerra in Ucraina. E soprattutto ha affrontato direttamente la fossa dei leoni dei deputati del suo gruppo per sollecitarli a non dimenticare "la più grande vittoria elettorale degli ultimi 40 anni" conseguita sotto la sua guida nel 2019, la realizzazione della Brexit, i successi della campagna vaccinale contro il Covid. E a ritrovare l'unità necessaria a prendere di petto le crisi del presente, inflazione in primis.
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