PIETRA MILIARE DEL ROCK

"Exile On Main Street": 50 anni fa dall'esilio volontario i Rolling Stones partorivano un capolavoro

Nel 1972 usciva l'album doppio realizzato dalla band in Francia dove si era rifugiata per sfuggire alla pressione del fisco inglese e della stampa

di Andrea Saronni

Un riff di chitarra secco, squillante, e un tipo dalla voce di uno appena sveglio che sibila un "oh, yeah". Quindi, una rullata di batteria che diventa il segnale di partenza di una corsa a cui si uniscono altre chitarre, un piano da saloon, trombe e tromboni. Tutto insieme, impastatissimo con le parole del tipo di cui sopra, che chiosa urlando che lui "viene solo quando sogna, viene solo quando dorme". Vengo in quel senso là, quello che non si può dire, nell’inglese non oxfordiano si dice "Rocks Off". I Rolling Stones scelsero questo illuminante concetto, questi quattro minuti e spicci di irresistibile delirio rock per cominciare la cavalcata del capitolo più vero, più romanzesco - e per tantissimi anche il più grande - della loro storia infinita. E" mezzo secolo che "Exile On Main Street", uscito in doppio Lp il 12 maggio 1972, è il castello inviolato e inviolabile dell’immaginario dei fan delle Pietre rotolanti, quelli che dietro i giovani ribelli dei Sixties prima e gli anziani imprenditori del loro mito poi hanno sempre cercato e amato la vera anima, musicale e personale, di Mick Jagger e Keith Richards.

E qui che hanno trovato l'alchimia assoluta, l'incastro che va ben oltre la partnership autoriale. Perché Exile è in buona sostanza lo yin e lo yang dei due leader, è la trasposizione ispirata in musica del caos di Richards che Jagger accetta di assecondare e a cui dà poi un tentativo di ordine nella realizzazione pratica dell'opera. Un tentativo, perché non era certo possibile tirare fuori il disco perfetto da una base così tecnicamente abborracciata, da registrazioni fatte nel seminterrato di una villa al mare in piena estate e fermate tramite una unità mobile, da un camion-studio, insomma. Gli Stones, tra l'altro, venivano dal capolavoro "Sticky Fingers", i cui titoli sembravano il catalogo di un pusher, ma che godeva di una eccelsa qualità del suono. Ma proprio il luogo, la circostanza, il momento e le conseguenti storture sono l'essenza dell’album, il mood che tiene insieme tutto raccontando una storia forse unica nel rock, certo un culto assoluto per gli stoniani di ferro che, almeno una volta nella vita, sono passati da Villa Nellcote, a Villefranche, Costa Azzurra, con lo stesso spirito con cui si va a San Pietro o alla Mecca.

Quello era il posto (splendido), una dimora di stile inglese dell'800 affittata da Keith, fuggito - anzi, esiliato insieme ai soci dalla madrepatria per motivi fiscali. Dal maggio all'ottobre del 1971, canzoni e corse in motoscafo, raid a Cannes o a Montecarlo e ore sulla terrazza o sulla scalinata di Nellcote con le chitarre, il tutto - ça va sans dire - condito da fiumi di eroina provenienti direttamente da Marsiglia. E poi, rigorosamente quando il sole andava giù, tutti sotto, nella cantina, a suonare. Dalle 10 di sera fino all’alba. "La luce del sole mi fa dare di matto - perché scaccia le ombre, il mistero del chiaro di luna", spiega tutto Jagger ancora in "Rocks off". La batteria in un vano, i fiati sdraiati per terra, Richards da una parte, il suo partner Mick Taylor dall'altra. Quello che ne viene fuori, tra pezzi che erano già nel cassetto da qualche tempo e nuove ispirazioni, è un Bignami degli Stones più autentici, quelli che - va detto - seguono la fedeltà alle radici musicali e l'istinto sincero del loro devastato chitarrista, in grado però di creare e dare la direzione, di essere leader, padrone di casa in tutti i sensi.

Le canzoni messe su vinile sono state 18 - troppe per il perfezionista Mick, che non ha mai fatto mistero di non avere Exile nel suo cuore - e passando dal rock al blues puro, dal country ispirato da Gram Parson (presente e fondamentale in quella estate folle) ai pezzi più lenti e sofferti impreziositi dal magnifico pianoforte di Nicky Hopkins, gli Stones toccano e mostrano corde che non si muoveranno più nei millanta lavori seguiti. Un puzzle unico perfettamente rappresentato anche dalla iconica cover, dal concept visuale creato dal grande fotografo Robert Frank appoggiandosi a una delle sue opere fondamentali, "The Americans". Un caleidoscopio di immagini in bianco e nero di fenomeni da baraccone, saltimbanchi, artisti da strada, cinema e sale da ballo di infima categoria. Anche per gli occhi, non solo per le orecchie, lo stesso messaggio: è un gran casino e ci siamo anche noi, ma ci piace, e finché reggerà, ci saremo.

E infatti, "Exile On Main Street" atterra in un'ultima canzone, si chiama "Soul Survivor", il sopravvissuto dell'anima. Che altri non è che Keith, che suona come se non ci fosse un domani il suo marchio di fabbrica, la schitarrata con risvoltino in accordatura aperta, ad libitum, fino a quando lentamente sfuma come per salutare, per dire che rimarrà un esiliato, qualsiasi cosa succeda. Ma mezzo secolo dopo è andata a finire bene, dai. Come per molti di noi che si sono sentiti a loro volta degli esiliati anche nella Main Street della vita, dentro un sistema, ma fuori dalla porta, con il loro intimo casino. Ma desiderosi solo di chiudersi in un bel posto, e godersi la notte d'estate ascoltando solo la musica e le parole che sentivano in testa.

Ti potrebbe interessare