Un album personale, in cui trovano spazio rapporti umani, sogni adolescenziali e le storie di una generazione che si è scontrata con la vita. E' questo "La rivoluzione", il nuovo lavoro di Enrico Ruggeri che arriva a distanza di tre anni dal precedente "Alma". "La mia è una generazione incredibile - spiega -, nel bene e nel male, direi più nel male, è quella che oggi tiene in mano il mondo: i sessantenni sono i capi degli Stati, della finanza. Ma con le sue storie e contraddizioni è anche una delle generazioni più interessanti da raccontare".
Un vero e proprio concept album autobiografico. E' questo in fondo "La rivoluzione", un lavoro che nell'arco di undici brani mescola temi universali ed episodi di vita vissuta con una chiarezza compositiva come a Ruggeri non capitava da anni con un perfetto bilanciamento tra la sua anima cantautorale e quella da rocker. Alla prima appartengono gioielli come l'intensa "Parte di me" e la conclusiva "La mia libertà", mentre figli della seconda sono episodi decisamente energici come "La fine del mondo", "Non sparate sul cantante" e "Gladiatore". Senza dimenticare le atmosfere Roxy Music di "Che ne sarà di noi" (con tanto di assolo di sax in puro stile Andy McKay) e "Alessandro", dove affronta con leggerezza e tenerezza un tema difficile e (nelle mani di altri) a rischio retorica.
Non ti era mai capitato di lasciar passare tre anni tra un album e l'altro. Come mai così tanto tempo?
I musicisti sono sempre alla ricerca del suono che hanno in testa e spesso non riescono a mettere in pratica. Il lavoro è cominciato con una serie di riunioni con tutti i musicisti perché era necessario che questo "santo Graal" fosse uno per tutti. La cosa positiva nel brutto della pandemia era che avevamo tanto tempo a disposizione e tanta tranquillità. Abbiamo fatto e rifatto e discusso.
L'idea dell'album ha cambiato pelle in corso d'opera?
Si è completamente trasformata. Abbiamo suonato tanto prima di accendere le macchine per registrare. Io non sono mai mancato un minuto dallo studio. Ho vissuto tutto il lavoro con grande partecipazione. Avevamo tutti la consapevolezza che volevamo un suono diverso. L’obiettivo di questo album è che l’ascoltatore possa capire che sono io prima ancora che io inizi a cantare.
In studio avete lavorato seguendo una serie di regole precise, un vero e proprio decalogo (vedi foto). Sei arrivato in studio già dal primo giorno con questa idea?
Il decalogo è nato in corso d'opera ma in realtà erano tutte cose che già applicavamo con grande naturalezza. Non ho inventato niente, la gran parte dei dischi belli degli ultimi 50 anni sono stati fatti così. Il senso principale è soprattutto ascoltare gli strumenti insieme, non stare lì a impazzire con il computer.
E' da qualche anno che insisti sul fatto che la tua musica è fatta senza campionamenti e tutta suonata per distinguerti da molte delle cose standardizzate che si sentono in giro. C'è anche una forma di reazione a tue esperienze in studio del passato?
Sì, c'è anche quel fattore. Non penso agli anni 80, quando la tecnologia è arrivata a dare un supporto, il computer non era il padrone, ma una macchina della quale scoprire le potenzialità. C’è stato piuttosto un decennio tra il 2005 e il 2015 nel quale un po' c'ero cascato anch'io. Se ascolti alcuni miei pezzi di quel periodo senza conoscerli fai fatica a capire qual è quello registrato prima e quale quello dopo, mi ero un po' seduto su un modo di fare dischi un po' standardizzato.
La reunion con i Decibel del 2016 è stato un momento di rinascita decisivo?
Decisamente sì. Anche perché mi sono ritrovato a lavorare con Fulvio Muzio e Silvio Capeccia che non entravano in studio da decenni. Ed è stata una lezione meravigliosa. Prima quando ti serviva un suono di tastiera cercavi un plugin nel computer. Invece Silvio mi diceva “che faccio qua? Meglio il Mellotron o il piano Fender?”. Si riferiva a nomi di tastiera che già contenevano un suono. E ho capito che avevano ragione loro. Il computer serve per registrare ma non per generare suoni.
Parlando di collaborazioni, ne "La rivoluzione" troviamo lo stesso Capeccia, una vecchia conoscenza come Andrea Mirò, e alcuni nomi nuovi. Come Massimo Bigi con cui hai scritto quattro dei pezzi del disco.
Beh, lui ormai può essere considerato uno di famiglia. L'anno scorso ho fatto questa follia di produrre un album di un sessantenne esordiente, nel periodo in cui le case discografiche cercano i trapper tredicenni. E la nostra collaborazione è continuata anche per questo disco.
Poi c'è Francesco Bianconi con il quale duetti in "Che ne sarà di noi".
Sui duetti sono sempre diffidente. In genere sento puzza di manager che si sono messi d’accordo tra di loro, per farne uno per quanto mi riguarda dev’esserci proprio un motivo. Francesco Bianconi l’ho conosciuto a Musicultura, abbiamo fraternizzato e abbiamo anche cantato una canzone insieme e ho avuto modo di capire che le nostre voci insieme stavano bene. Lui è un personaggio interessante perché è un ragazzo di provincia che però ha cantato molto Milano e la racconta meglio di gente che ci vive da una vita.
Tra le canzoni più personali dell'album c'è "Parte di me".
E' un brano che affronta l'elaborazione dell'assenza. Io sono figlio e nipote unico. Ricordo bene una serie di Natali in cui ero il più giovane a tavola, mentre adesso sono spesso il più vecchio della tavolata. Questo significa che tutti quelli della tavolata numero uno non ci sono più. E sono persone che sento più vicine adesso di quando erano vive. Le telefonate di mia madre mentre ero in tournée le vivevo un po’ come una tassa da pagare, mentre ora mi scopro a chiedermi cosa direbbe lei di quella canzone o di quell’altra. D'altro canto rendersi conto del valore di una cosa solo quando lo hai perso è nella natura umana.
"Alessandro" è invece uno spaccato di vita vissuta che racconta di un'amicizia speciale.
Alessandro è un mio carissimo amico. Per capire quanto è stretta la nostra amicizia, basta pensare che quando sono andato a vivere da solo sono andato a vivere con lui. Adesso ha una malattia per la quale muove gli occhi e poco più. La canzone è il racconto di un pomeriggio passato a chiacchierare e anche solo a darsi vicinanza di anime.
In copertina hai messo una tua foto di classe ai tempi del liceo classico, il Berchet di Milano. Nella stessa scuola avevi fatto anche la conferenza stampa di reunion dei Decibel: è un momento del tuo passato al quale sei ancora molto legato?
Beh, ci ho passato cinque anni, l'adolescenza, i primi innamoramenti, le delusioni. E anche la musica. Io al Berchet ero "Ruggeri della 2H, quello che suona". Diciamo che è stato il primo momento di micro celebrità.
Come ti è venuta l'idea della copertina?
Un po' per caso. In realtà ne avevo preparate altre, più strettamente legate al titolo. Poi mi è capitata sotto mano questa foto e ho pensato che non stavo parlando di giacobini o di Che Guevara, ma di questi ragazzi qua. Ho buttato via tutto e ho detto che quella era la copertina.
Se dovessi fare un consuntivo di quanto fatto dalla tua generazione?
E' una generazione incredibile, che è passata in un attimo da Carosello alle bombe di Piazza Fontana. Non ha vissuto la parte romantica del ‘68 ma gli anni di piombo. Ha visto arrivare l’eroina: ognuno della mia generazione ha un amico o un compagno di classe morto di overdose. E poi è arrivato l’Aids. Però per contro, nel bene e nel male, direi più nel male, la mia è la generazione che tiene in mano il mondo: i sessantenni sono i capi degli stati, della finanza. E' una delle generazioni più interessanti da raccontare.
Giorgio Gaber fece un disco intitolato "La mia generazione" ha perso...
In questo caso potremmo dire che siamo stati vincitori di un grande girone e poi sconfitti in finale. In realtà il significato di fondo è che nella vita nessuno vince completamente.
Adesso ti attende un giro di firma copie e un tour teatrale.
Tornare a incontrare il pubblico è sempre bello, ma tour per ora è una parola grossa: facciamo ad aprile alcuni concerti e speriamo poi di fare una bella estate. Tour per me era quando partivi con una valigia alta come te e stavi via quattro mesi. Al momento non è ancora possibile pensare a qualcosa del genere.
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