Guerra in Ucraina, "quelle terre non volevano essere liberate da nessuno perché non sono prigioniere"
A Tgcom24 la testimonianza della collega Olga Bibus. I suoi nonni vivono a Kherson, tra Odessa e la Crimea. "Sono otto anni che ci minacciano, mica scateneranno una guerra mondiale?" mi dicevano ieri"
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"Ma no, tranquilla, non attaccheranno, mica vogliono scatenare una guerra mondiale? Sono otto anni che ci minacciano, siamo abituati". Le parole di mio nonno, pronunciate solo poche ore prima, in una telefonata su WhatsApp mi rimbombavano nella mente cercando di tranquillizzarmi, quando questa mattina, appena sveglia, ho letto le notizie dei bombardamenti.
I miei nonni vivono a Kherson, io sono nata lì. Una città nel sud dell'Ucraina. Una terra russofona dall’animo ucraino, con radici piantate in entrambi i Paesi. Sono arrivata in Italia da piccola e quando mi chiedevano da dove venissi, per anni non ho saputo dare una risposta: sono nata in Ucraina, ma parlo russo, però non sono nemmeno russa, in effetti, anche se parte della mia famiglia è originaria di lì.
Da dove venissi, insomma, non lo sapevo nemmeno io. Solo da poco ho capito che quella dualità che sentivo mia è parte della storia di quelle terre in nome delle quali oggi si combatte, ma che di sicuro non volevano essere liberate da nessuno, visto che non si sentivano prigioniere.
Mio nonno ha studiato all’Accademia navale di Kherson, era capitano meccanico nella Marina, ha girato il mondo e per questo mi sono fidata delle sue rassicurazioni. “Ha vissuto nella sua vita tante situazioni di emergenza, sa quello che dice", mi ripetevo.
Poi, stamattina, ho aperto Instagram e TikTok e non potevo credere ai miei occhi: Odessa, Kharkiv, Kiev erano state davvero attaccate. La città dove sono nata si trova proprio in mezzo, a separarla dalla Crimea un ponte.
Proprio attraverso quel ponte, mi hanno detto, i militari russi sono arrivati in città. C’è chi si è nascosto in bunker più o meno improvvisati, chi si è rifugiato in campagna. Chiamo i miei nonni. Sono in macchina, terrorizzati. Stanno girando da ore per la città in cerca di un supermercato per fare scorte, ma non ne hanno trovato nessuno, molti sono stati già svuotati, mi dicono, oppure fuori ci sono delle file chilometriche.
Riattacco e cerco una soluzione, magari possono raggiungere Leopoli e da lì andare in Polonia, che è Ue e quindi potrei andarli a prendere. Penso e mi maledico per non averci pensato prima, per essermi lasciata convincere dalle loro rassicurazioni.
Con il passare delle ore le notizie sono sempre più terribili. “Stanno per staccarci l’acqua”, assicura un esponente politico della città che preferisce rimanere anonimo e che nel frattempo si è nascosto in una sorta di bunker insieme ad altre decine di persone.
Le strade di Kherson sono vuote, gli uomini vengono costretti ad arruolarsi, le donne rimandate a casa dai militari. Si spera, si prega, chiusi in casa. Si guarda soprattutto Telegram e TikTok per avere aggiornamenti. “Finché riusciamo a collegarci e qualche attacco hacker non ci fa saltare anche la rete”, dicono. Intanto dai social arrivano immagini di nuovi attacchi, di un aereo abbattuto, e su Telegram è iniziata la conta dei morti.
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