"Amo Burri, perché non è solo il pittore maggiore di oggi, ma è anche la principale causa d'invidia per me: è d'oggi il primo poeta”, sono parole che Giuseppe Ungaretti ha lasciato scritto sul frontespizio di un volumetto del 1968, per accompagnare il quale il Maestro di Città di Castello aveva realizzato una delle sue meravigliose Combustioni. E pensare che neppure nove anni prima l'acquisizione di uno dei suoi sacchi da parte della Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, che alla guida aveva la lungimirante Palma Bucarelli, aveva suscitato tante critiche che erano finite persino in Parlamento con un’indignata interrogazione del senatore Terracini che voleva sapere quanto fosse stata pagata "quella vecchia e sudicia tela da imballaggio che, sotto il titolo di «Sacco grande» era stata messa in cornice da tale Alberto Burri".
Ciò che aveva stizzito il senatore, ovvero quella juta consunta e rattoppata (le prime pezze Burri le aveva ricavate dai sacchi di zucchero che gli americani avevano portato dopo la guerra a sostegno degli alleati), quella materia così logora e dimessa, era invece la forza e l'autenticità di un lavoro che aveva scelto un percorso tutto nuovo per raccontare l'uomo. Cosa che, negli anni, avrebbero fatto, con la medesima profondità e convinzione, anche i suoi legni combusti, le lastre di metallo, i catrami, le plastiche disciolte e annerite dal fuoco del cannello, la sacralità della foglia d'oro e la magnetica arsura del cellotex, la cui superficie è come un guscio d'uovo sgretolato, come una landa deserta (bianca oppure nera) cotta dal sole e desiderosa di riaccogliere tra quei crepacci la vita.
Sì perché nelle opere di Burri la materia, tra drammatiche lacerazioni e disperate suture, tra rossi sanguigni e neri abissali, tra infiniti silenzi e ulcere strazianti non è mai fine a se stessa, poiché così come sa celare i misteri dell'universo e la memoria della natura allo stesso modo sa raccontare l'uomo, nella sua ostinata lotta per l'esistenza e nella sua emozionante fragilità.
A lei e alla sua immensa carica poetica sono consacrati sia la mostra - con una cinquantina di opere - alla Fondazione Ferrero di Alba (visitabile gratuitamente fino al 30 gennaio) sia il bel volume monografico edito da Skira. Entrambi si aprono con un dipinto a olio, uno dei primi che Burri aveva realizzato quando era in Texas perché prigioniero, internato nel campo di concentramento per i militari dissidenti. La natura in quel rettangolo di tela è un incontenibile fiume di lava, gli alberi sono tronchi capitozzati e uno steccato non può arginare il fuoco che l'accende. È lì, in quel campo arroventato dal sole, dove una sottile linea all'orizzonte cuce terra e cielo, che Burri decide di abbandonare la professione di medico e inizia a coltivare la pittura. Anche se in quel paesaggio non c'è alcuna presenza umana, è lì che comprende che è comunque dell'uomo che si vuole occupare, offrendogli una "cura" che nessun'altra medicina avrebbe mai potuto dargli: l'arte.