Le mille vite di Steve Van Zandt ora sono diventate un libro. E' uscito "Memoir - La mia odissea tra rock e passioni non corrisposte", l'autobiografia del musicista a molti noto come Little Steven. A lungo spalla di Bruce Springsteen nella E Street Band, rocker solista e attivista politico con il progetto "Sun City" che contribuì a far finire l'apartheid in Sudafrica, attore, autore radiofonico. I talenti di Van Zandt sono molteplici. "
Pochi personaggi incarnano il rock degli ultimi 40 anni come Little Steven. Personaggio carismatico, inventivo, in continua mutazione per un'innata curiosità e voglia di esplorare continuamente mondi nuovi. E' stato il braccio destro di Springsteen nella E Street Band salvo lasciarla, nel 1984, un attimo prima che con "Born in the USA" i Boss diventasse una star planetaria. Ha preferito buttarsi nella carriera solista ma non per il gusto di vendere dischi e comparire sulle copertine delle riviste, ma per raccontare il mondo e, se possibile, cambiarlo. Si è così trasformato in attivista politica, contribuendo con l'operazione "Sun City" ad abbattere il regime dell'apartheid in Sudafrica e a far liberare Nelson Mandela. Dopodiché la sua vita è cambiata di nuovo. Sono arrivate nuove esperienze: attore ne "I Soprano", regista, autore e protagonista di un'altra serie tv, "Lilyhammer", decisiva per un cambio di visione da parte di Netflix. E poi uno show radiofonico, "Little Steven's Underground Garage", basato sul garage rock e altri sottogeneri del rock dagli anni 50 al presente, trasmesso settimanalmente dal 2002 da oltre 200 stazioni radio negli Stati Uniti e in diverse radio internazionali. E in mezzo a tutto questo la reunion con la E Street Band e i molti tour al fianco di Springsteen. Una vita e una carriera che hanno lasciato il segno e riempiono, anche in maniera appassionante, le quasi 400 pagine del suo libro.
Perché proprio adesso un memoir sulla tua vita?
Credo che chiunque abbia scritto un memoir in quarantena. Soprattutto per gente come me che ha passato la vita a viaggiare, trovarsi a casa per un anno e mezzo ha fatto sì che questo fosse il momento giusto. Ma altrettanto importante è stato il fatto che il periodo tra il 2017 e il 2020 è stato il più produttivo di tutta la mia vita. Un box con la raccolta dei miei sei album e due dischi nuovi di zecca, assolutamente inaspettati. Due dischi che in un modo curioso hanno chiuso un cerchio. Per più di vent’anni avevo abbandonato la mia carriera solista, riconnettermi con la mia musica mi ha dato una sensazione di chiusura di quella parte della mia vita. Se quello per “The Summer of Sorcery” (uscito nel 2019 - ndr) alla fine fosse l’ultimo tour dei Disciples of Souls, beh, mi andrebbe bene, perché non abbiamo lasciato nulla in sospeso. “Soulfire” (2017) era una raccolta di canzoni che avevo scritto per altri, ma essere stato in tour con la stessa band per quel disco mi ha fornito le fondamenta per scrivere il primo lavoro di inediti in trent’anni. Dopo questo ho pensato che fosse il momento di scrivere un libro. Me lo ha suggerito anche il mio nuovo manager. Nuovo… il mio primo manager: non ne ho mai avuto uno in tutta la mia vita, e questo è strettamente connesso ad almeno metà dei problemi di cui racconto nel libro… E mi è sembrata una buona idea.
Ripercorrendo la tua vita e la tua carriera c’è qualcosa che hai avuto modo di giudicare diversamente rispetto al momento in cui l'avevi vissuta?
Per essere sincero non mi guardo indietro molto spesso. In questo caso mi sono imposto di andare indietro con la memoria, anno dopo anno. E affrontando anche gli errori che ho commesso, mi sono chiesto perché mi sono comportato in quel modo. Non credo che tornando indietro farei diversamente. Soprattutto per quel che riguarda il lato artistico della mia vita, non cambierei una virgola. Avrei potuto rimanere nella E Street Band e non pubblicare sei, anzi ormai sette, album miei. O non avrei mai fatto "Sun City", e i "Soprano" e "Lilyhammer". Magari sarebbe stato bello rimanere nella E Street Band, ma non sarebbe stato possibile in quel momento. Questo mi ha fatto sentire meglio rispetto a quello che, in alcuni momenti, può essere sembrato come il suicidio di una carriera. Sono sempre stato un po’ depresso pensando a questa cosa, ma realisticamente, non sarebbe mai potuto andare in un altro modo.
Il libro si apre con un prologo ambientato nel 1984, con te in Sudafrica, che vai a renderti conto della situazione, scoprendo anche una sensibilità politica fino a quel momento per te sconosciuta. La consideri la svolta più importante della tua vita?
Prima di tutto mi piace quella parte perché è carica di tensione. Amo le biografie dei musicisti più delle autobiografie, perché vorrei che ci fosse della suspense, come in un libro di Dan Brown, dove non sai cosa potrebbe accadere, invece di una noiosa e piatta biografia musicale. Per quello quel passaggio non è scritto in prima persona ma è come un romanzo: quel momento è stato il più drammatico della mia drammatica storia da attivista politico. Volevo diventare un artista-giornalista, in grado di raccontare quello che stava accadendo, ma non avevo mai pensato di diventare anche un attivista. Quello è stato una grossa sorpresa anche per me. Non pensavo di avere quella sensibilità. Improvvisamente mi sono trovato sull’aereo per il Sudafrica, io che non avevo mai amato volare, senza paura. Avevo un obiettivo ed ero disposto a tutto per perseguirlo. Ho rischiato davvero la vita, avevo i partiti politici in lotta contro l’apartheid che mi appoggiavano ma i militari sul posto non scherzavano per nulla e anzi questa cosa metteva la mia posizione ancora più a rischio. Insomma, è stato un momento fortemente drammatico e mi è sembrato perfetto per aprire il libro sia per l’importanza che ha avuto nella mia vita sia per dare subito un tono giusto al racconto.
Oggi la musica avrebbe ancora il potere di sollevare le coscienze al punto di provocare un cambio di portata epocale come la fine dell’apartheid?
Non credo. Sicuramente non nella stessa maniera in cui avvenne all’epoca. Ma c’è ancora una possibilità. È più sottile ed è più un piano sul lungo periodo: oggi spendo le mie energie in un’opera di integrazione delle arti nel sistema educativo. Non parlo di classi separate o di doposcuola ma di arte nella matematica, nella scienza, nella tecnologia. Questo trasformerebbe il sistema educativo. Abbiamo un mondo diverso oggi. Devi dare ai ragazzi qualcosa che possano usare adesso, devi insegnare al presente. Quello che suggeriamo è di sfruttare quello di cui i ragazzi sono ricchi: immaginazione, curiosità, emotività. Tutto ciò che la scuola attuale invece schiaccia e sopprime. La nostra filosofia è che insegnare ai ragazzi come pensare è molto più importante di insegnare loro cosa pensare. Le arti mettono in connessione tutti i punti. Quindi sì, l’arte e la musica possono ancora cambiare il mondo, ma è un lavoro più sotterraneo, di cui vedremo i frutti forse tra un paio di generazioni. Ma io guardo avanti.
Nel breve periodo non c’è nulla da fare?
Nel frattempo qualcosa di buono potrebbe venire da qualche concerto, da qualche disco, ma è sempre più difficile perché oggi ognuno pensa a se stesso. Noi abbiamo fatto quelle cose perché era il momento giusto di farle.
Leggendo il libro appare evidente quante volte tu sia stato un passo avanti rispetto ai tempi: da alcune soluzioni di produzione musicale negli anni 80 alle idee su come rendere internazionali serie tv pensate per un pubblico locale. Pensi che questo qualche volta più che un vantaggio sia stato per te un ostacolo?
Qualche volta? Cosa significa “qualche volta”? Lo è stato di continuo! Non me ne frega niente di essere avanti rispetto ai tempi, una volta tanto vorrei essere al passo dei tempi! Battute a parte, c’è stata una buona dose di coincidenze. Per esempio per Netflix o per i Soprano, non sono stato io ad avere “la visione”, l’idea di come muoversi, sono stati altri i protagonisti. Nel caso del Sudafrica ero sicuramente avanti per quello che concerne gli Stati Uniti ma il resto del mondo era già consapevole della situazione. È vero che spesso sono attratto dai vuoti, da una mancanza che io avverto e faccio in modo di colmare. Quando ho iniziato il mio format radiofonico è stato solo perché mancava qualcosa del genere. Se accendevi la radio negli Stati Uniti le radio di classic rock attingevano alle solite quattro o cinquecento canzoni. Va bene, ma tutto il resto? Quando ho iniziato il mio format la discoteca a cui attingere prevedeva seimila canzoni. Ho deciso che doveva essere più del semplice rock, bisognava andare alle influenze, unire i puntini tra presente, passato e futuro. Era necessario, per le generazioni future.
Parli delle generazioni future, ma il presente come lo vedi?
Noi facciamo parte di una generazione fortunata. Gli anni 60 sono stati anni incredibili in cui crescere, quando l’arte più incredibile mai fatta è diventata anche la più commerciale. È stato un vero rinascimento. Noi siamo stati la generazione più fortunata e io sono stato il ragazza più fortunato all’interno di essa. Mi guardo intorno ora e tutto mi sembra così noioso. Così voglio condividere un po’ dei colori e dell’eccitazione che ci avvolgevano tutto il tempo negli anni 60. Non avevi bisogno di cercarli, erano intorno a te. Non era tutto perfetto: le città bruciavano di proteste, c’erano omicidi, la guerra del Vietnam… ma avevamo una prospettiva, sapevamo che il domani sarebbe stato meglio di ieri. Oggi nulla sta migliorando, siamo in una china discendente.
Musicista, produttore, attivista politico, attore… adesso anche scrittore. Steve Van Zandt ha avuto molte vite. Come vorresti essere ricordato?
Se dovessi definirmi direi che sono essenzialmente un autore e un produttore. Mi piace molto la parte creativa, credo sia quella più importante della mia vita ed è la ragione per cui sono qui in questo momento. È la parte più unica e soddisfacente di tutto quello che faccio. Non sottovaluto l’importanza della performance, ma è così bello scrivere una canzone o un programma televisivo o uno show teatrale… Il libro è un'estensione del mio lavoro. Spiega molto di quello che ho fatto, spero che la gente possa riscoprirlo o scoprirlo per la prima volta perché credo abbia un valore. L'esibizione ha avuto una parte importante nella mia vita ed è l'unica che, ovviamente, la gente ha potuto vedere. Ma per me è importante che si sappia anche cosa c’è stato dietro le quinte.
STEVIE VAN ZANDT
"Memoir - La mia odissea, fra rock e passioni non corrisposte"
Il castello - Chinaski Edizioni
ppgg. 382 - 22 euro