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Torino, assolto dall'accusa di stupro perché la vittima "non urlava e non piangeva": sentenza ribaltata, c'è la condanna

Quattro anni e 6 mesi per un istruttore della Croce Rossa. In primo grado il racconto della donna era stato ritenuto non credibile

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Un istruttore della Croce Rossa, accusato di violenza sessuale su una collega in un ospedale di Torino, è stato condannato a 4 anni e mezzo di reclusione della Corte di Appello. In primo grado l'uomo era stato assolto perché il racconto della donna era stato giudicato "non credibile". "Non grida, non urla, non piange. Risponde alle chiamate mentre lui l'aggredisce, senza insospettire il centralinista", era stato scritto nella sentenza. 

Il caso L'uomo era stato accusato di avere ripetutamente stuprato, tra il 2010 e il 2011, una collega all'epoca lavoratrice interinale in stanze degli ospedali della città.

La vicenda giudiziaria Nella sentenza di primo grado, nel 2017, venne però assolto perché la vittima era stata giudicata inattendibile. Non solo, il Tribunale aveva anche disposto il rinvio degli atti alla Procura, dando indicazione di procedere per calunnia contro la vittima. Il processo d'Appello si chiuse, invece, con un non luogo a procedere, nonostante la Corte avesse messo in luce le fragilità della donna, giudicando credibile il suo racconto. Ma, nonostante ciò, aveva assolto l'imputato per un cavillo tecnico giuridico e cioè che la querela era stata intempestiva.

L'intervento della Cassazione Il caso era arrivato al vaglio della Cassazione, che aveva annullato la precedente sentenza, disponendo un nuovo processo d'Appello per indagare sul rapporto gerarchico che esisteva tra la vittima e l'imputato. Un aspetto che avrebbe portato al superamento delle questioni giuridiche legate alla querela. 

La condanna E così è stato necessario un nuovo processo d'Appello  nel quale è stata ripercorsa l'intera vicenda e ricostruito il rapporto gerarchico dei protagonisti della vicenda. Lui era il coordinatore dei volontari e come tale ne poteva gestire i turni. In tutti questi anni, la vittima ha sempre sostenuto che lui l'aveva obbligata "come pegno per poter continuare a lavorare" ed evitare turni in posti meno spiacevoli rispetto agli ospedali, come ad esempio il "Centro identificazione ed espulsione" degli immigrati. Attraverso decine e decine di messaggi, estrapolati dal telefono dell'imputato, il sostituto procuratore generale ha messo in luce il comportamento prevaricatorio dell’imputato. 

La tesi della difesa e l'offerta di risarcimento rifiutata Non ha retto la tesi della difesa, secondo la quale l'uomo non aveva alcun potere discrezionale sull'organizzazione dei turni dei volontari e sulla possibilità di influire sul rinnovo dei contratti. Alla vigilia dell'udienza, l’imputato ha anche offerto alla donna un risarcimento di 10mila euro. "Ho rifiutato perché i soldi non mi sono mai interessati. Volevo solo avere giustizia. Tante volte ho pensato di arrendermi. Se non l’ho fatto è stata grazie a mia figlia», ha raccontato la donna prima di lasciare Palazzo di Giustizia. 

"Giustizia è fatta" "Finalmente - ha commentato l'avvocato di parte civile, Virginia Iorio - giustizia è stata fatta. Sono passati 10 anni, è vero. E ad un certo punto sembrava persino che sotto processo ci fossimo noi. Ma voglio lanciare un messaggio a tutte le donne: crederci e crederci sempre. Possono verificarsi degli errori, come nel nostro caso la sentenza di primo grado. Ma non bisogna mai abbandonare la fiducia e la speranza". Il legale ha anche rivolto un "grazie" al procuratore generale e alla polizia giudiziaria che "ci hanno creduto fino in fondo".

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