Il 15 giugno del 1981 usciva “Duran Duran”, album di esordio della band di Birmingham che avrebbe segnato il pop anni 80. A 40 anni tondi da quell’uscita il gruppo è ancora “alive and kicking” in quattro quinti della formazione originale. Il ventaglio di possibilità per celebrare l’anniversario era ampio: un classico greatest hits, un album di rifacimenti di propri successi infarciti di featuring alla moda, un disco remake, magari orchestrale. Tutte cose ampiamente viste in questi anni, tanto ampiamente da venire a noia. I Duran Duran hanno invece optato per la via meno ovvia e anche più difficile: realizzare, con "Future Past", quello che è con ogni probabilità il loro miglior album da più di trent’anni a questa parte.
Se nell’ultimo ventennio il gruppo aveva zigzagato tra la volontà di inseguire le mode risultando fuori tempo massimo (“Red Carpet Massacre” e “Paper Gods”) e quella di replicare il proprio passato con risultati brillanti ma per forza di cosa sbiaditi rispetto all’originale (“All You Need Is Now”), con “Future Past” è riuscito a combinare passato e futuro per farli incontrare nel presente con un equilibrio perso da tempo. Non ci sono autoscopiazzature evidenti, non si troverà la copia carbone di “Hungry Like the Wolf” o “Rio”. Unica eccezione è “Anniversary”, brano volutamente autocelebrativo e autoreferenziale che però mischia le carte mettendo insieme diversi pezzi di passato.
C’è piuttosto un recupero di caratteristiche fondanti il sound originario del gruppo. Rhodes rispolvera arpeggiatori e synth d’epoca per costruire strati su strati di soluzioni sonore, mentre il basso di John Taylor torna a essere marchio di fabbrica. Cinque anni dopo aver esaltato il fatto che nessuna canzone nei primi posti in classifica avesse un basso vero per giustificare l’uso di un basso synth in alcune tracce di “Paper Gods” Taylor si ripresenta con un basso che per linee e predominanza riporta dritti al 1982. Ma queste sonorità si calano su armonie e linee melodiche che cercano spesso vie inedite, in alcuni casi non perfettamente apprezzabili al primo ascolto perché tutt’altro che ovvie e scontate. Una ricerca che appare evidente in pezzi più intimi come “Wing” o la conclusiva “Falling”, a cui Mike Garson regala il suo tocco inconfondibile portando alla memoria il David Bowie più evocativo di “Lady Grinning Soul”, ma persino nelle tracce più catchy come “Beautiful Lies”, che Giorgio Moroder segna con il suo marchio di fabbrica disco-dance. In quanto a Bowie da sempre modello ispirativo della band, affiora spesso nel corso del disco, come nella strofa di "Wing" o nel break chitarristico di "Future Past", che sembra venire direttamente da "Scary Monsters", il lavoro di Bowie che più ha influenzato la new wave in cui sarebbero sguazzati proprio i Duran del primo album.
L'apporto poi di un chitarrista di livello come Graham Coxon in fase di scrittura ha portato quell'equilibrio tra le parti che ha fatto andare ogni tassello al posto giusto. Dimostrando che quarant'anni di carriera non sono passati invano e che il gruppo ha ancora molto da dare.