"Quando parlano di associazione a delinquere dovevano mettere insieme a me anche il ministero degli Interni e la Prefettura di Reggio Calabria perché allora mi chiamavano 'San Lucano' in Prefettura perché gli risolvevo i problemi degli sbarchi". Lo dice Mimmo Lucano, tornando sulla condanna in primo grado a oltre 13 anni di carcere. "A Riace c'era un'organizzazione dell'accoglienza, c'erano le associazioni, le coop", aggiunge.
"A Riace c'era un'organizzazione dell'accoglienza, c'erano le associazioni, le coop e alla fine lo Stato mi ripaga dicendo che ho fatto l'associazione. Allora se ho fatto l'associazione anche loro sono partecipi perché mi chiedevano numeri altissimi per un piccolo borgo ai quali dicevo sì per la mia missione. E lo Stato come mi ripaga? Dandomi 13 anni e 2 mesi".
"In questa vicenda tante cose gravi" "In questa vicenda ci sono tante ombre e cose gravi. Mi aspetto che qualcuno si ricordi della ragazza che, a causa della chiusura del progetto Cas per mancanza di fondi, è poi morta in un rogo nella baraccopoli di San Ferdinando", spiega Lucano a proposito della giovane, Becky Moses, 26enne nigeriana morta il 27 gennaio 2018.
"Nell'elenco delle persone da trasferire, al numero 15 - ricorda - c'era Becky Moses che per due anni ha vissuto a Riace ed era felice. Partecipava alle manifestazioni, alle feste. Era venuta a Riace, nel mio ufficio, per chiedere la carta d'identità e gliela ho fatta. E questo non me l'hanno mai contestato anche se le mancava il permesso di soggiorno. E dove è andata a finire Becky? Nella baraccopoli di San Ferdinando, nel mondo degli invisibili dove ha incontrato la morte. La sua capanna ha preso fuoco ed è morta bruciata viva. Per 4 mesi i suoi resti sono rimasti nell'obitorio. Mi hanno chiamato e adesso è nel cimitero di Riace, l'unico luogo che ha tentato di dare dignità alla sua vita da viva e da morte. Per quella morte spero un giorno ci sia giustizia e che qualcuno si ricordi di lei, qualcuno deve rispondere".
"Non ho niente se non orgoglio per aiuto altri" "Sono dispiaciuto. Non ho nessuna cosa nella vita se non l'orgoglio di avere, per anni, inseguito un'ideale e di aver fatto delle cose che mi davano una fortissima gratificazione, essere di aiuto a tantissime persone arrivate a Riace in fuga dalle guerre, dalla povertà. Questo dava valore a quello che stavo facendo, che non era una cosa persa. Nel mio immaginario era come dare un aiuto al mondo", racconta Lucano ancora sconvolto per la condanna ma soprattutto per le accuse rivolte al suo sistema di accoglienza e integrazione dei migranti, il cosiddetto "modello Riace".
"Per anni - dice - ho avuto questa convinzione. Per anni lo Stato mi ha chiesto con insistenza. Io
mi aspettavo l'assoluzione. Il giudice mi aveva revocato le misure cautelari dandomi la possibilità di venire a votare per le Comunali. Poi non conta la Cassazione ed il Riesame che ha smontato l'accusa, come lo stesso gip che pure emise l'ordinanza nei miei confronti. Questa storia è piena di contraddizioni. Una è quella delle due relazione della Prefettura fortemente contrastanti. Nella prima, per la prima volta, si è tentato, quasi scientificamente, di delegittimare, anche a livello mediatico, il cosiddetto "modello Riace", un piccolo paese che ribaltava il paradigma sull'accoglienza dove tutto è negativo e che è la causa di tutti i mali. Invece questo piccolo luogo quasi abbandonato faceva il contrario".
"Per me stesso non importa - conclude - ma non posso accettare per il dolore dei miei figli. Tutta la vita l'ho spesa in un certo modo".