Quando gli americani, il 20 ottobre 1944, per un errore di manovra, sganciarono tonnellate di bombe sul quartiere Gorla invece che sull'obiettivo della loro missione, le industrie pesanti Breda e Alfa Romeo, trasformando il rione in un inferno, Marco Pederielli aveva 6 anni e frequentava la seconda elementare alla scuola Francesco Crispi. Quella terribile mattina di 70 anni fa morirono 614 persone, fra cui 184 bambini. A Tgcom24 Pederielli racconta come è sopravvissuto.
Cosa ricorda di quella mattina?
Il primo allarme suonò verso le 11.15. Le maestre si affrettarono a far uscire i bambini dalle classi per portarli nei rifugi sotterranei. Io devo la mia salvezza a tre coincidenze.
Nonostante avessi 6 anni, mi ero iscritto direttamente in seconda elementare perché avevo fatto la prima da privatista. È stata una fortuna perché le prime classi facevano lezione al piano terra e furono le prime ad entrare nei rifugi. Nessuno di coloro che raggiunsero i rifugi è sopravvissuto, perché una bomba cadde nella tromba delle scale e l'esplosione fece crollare l'intera struttura.
Durante la discesa verso i rifugi, mi accorsi che avevo dimenticato il cappotto in classe. Corsi di sopra a riprenderlo e quando ridiscesi notai che il bidello aveva lasciato il portone della scuola aperto. Uscii in strada con le bombe che già stavano cadendo in tutto il quartiere. Fu rischioso ma non finii sotto le macerie della scuola.
Strisciai in strada costeggiando le case, finché arrivai sul sagrato della chiesa del quartiere. Un droghiere mi tirò dentro il negozio proprio un attimo prima che una bomba cadesse sulla chiesa. Mi ritrovai nella cantina del suo negozio con la bocca piena di polvere e le orecchie che fischiavano, ma ero salvo.
Più tardi mi diressi verso casa e a metà strada trovai mia madre, che stava correndo verso la scuola per venirmi a prendere, e tornammo a casa.
Quanti dei suoi compagni di classe sono sopravvissuti?
Soltanto uno. Un mio amico, che poi ha fatto con me il liceo scientifico e la Bocconi, era rimasto a casa perché aveva l'influenza. Tutti gli altri sono deceduti nel crollo della scuola.
Metà del quartiere aveva perso i suoi bambini, mentre quelli dell'altra metà erano ancora vivi, perché i bambini che abitavano nella parte destra di viale Monza avevano un orario scolastico diverso da quelli che abitavano nella parte sinistra della strada.
Cosa è successo dopo la strage?
I miei genitori mi portarono via dal quartiere. Si sentivano quasi “in colpa” perché, quando incontravano le altre madri, queste chiedevano perché i loro figli fossero morti mentre io ero ancora vivo.
Quelle stesse madri, alla fine della guerra, fecero a gara nel festeggiare e nell'accogliere i liberatori americani, dimenticandosi chi erano i responsabili della morte dei loro bambini. Ma credo che sia stata una reazione normale, dopo una guerra così lunga e terribile.
Come si superano un trauma e un dolore così tremendi?
Non si supera mai del tutto. Dopo 80 anni, quando si avvicina il 20 ottobre sento ancora una grande tristezza, perché penso a tutti quelli che potrebbero ancora esserci e non ci sono più.
Per fortuna, ho avuto una vita felice e mi sono tolto anche molte soddisfazioni professionali. Un po' perché ero molto piccolo e un po' perché i miei genitori mi hanno subito portato via da Gorla, quel trauma non ha influito negativamente sulla mia realizzazione personale.
Cosa si porta ancora dentro di quel giorno dopo tutti questi anni?
Io ho sempre lavorato nel mondo della cultura e dell'editoria e ho abbracciato completamente la cultura occidentale. Ma da allora mi porto dentro un certo astio contro gli Stati Uniti.
Considero gli americani un popolo non particolarmente colto, che non merita di avere un ruolo di portabandiera dell'Occidente. Non mi dispiace che abbiano perso un po' di leadership negli ultimi anni.