Sono trascorse quasi due settimane da quando l'ente DFEH (Department of Fair Employment and Housing) dello Stato della California ha accusato Activision Blizzard a seguito di diverse testimonianze di ex-dipendenti donne. La società sviluppatrice di alcuni tra i videogiochi più famosi (ricordiamo World of Warcraft, Call of Duty, Diablo e il più recente Overwatch) è finita nella bufera per dichiarazioni riguardanti differenze salariali, episodi di violenza sessuale, ritorsioni, molestie, mobbing e più in generale una cultura interna maschilista e soffocante.
Accuse gravissime che hanno trovato conferma in un’investigazione interna portata avanti per due anni e i cui risultati, al momento della notizia il 22 luglio, erano già in mano alla Corte Superiore della Contea di Los Angeles. Il primo a riportare l’accaduto è stato il reporter Jason Schreier, noto anche per inchieste condotte su retroscena non proprio rassicuranti di qualche azienda o studio di sviluppo, il quale ha condiviso alcuni dettagli della denuncia: la notizia non ha tardato a rimbalzare ovunque, facendo emergere una situazione dai tratti grotteschi, tra cui insulti, avance giornaliere, molestie e commenti a sfondo sessuale.
“Le donne non ricevono promozioni perché i piani alti temono possano rimanere incinte, hanno uno stipendio più basso e spesso devono cedere sale o uffici ai colleghi uomini”, si legge nella denuncia, che ha sottolineato inoltre situazioni di favoritismo nei confronti dei dipendenti uomini nonostante la maggior esperienza delle colleghe donne. Il caso più grave fra quelli esposti vede il suicidio di una ragazza durante un viaggio di lavoro con il suo supervisore: stando al rapporto, la vittima era stata presa di mira con molestie e commenti fuori luogo dopo che uno dei dipendenti, con cui si frequentava, aveva condiviso le sue foto intime con i colleghi.
Immediata la risposta di Activision Blizzard, che attraverso un proprio rappresentate ha rigettato totalmente le accuse affermando come non riflettessero l’ambiente di lavoro e fossero, anzi, basate su casi passati messi in luce in modo distorto quando non del tutto falso. Questo non ha tuttavia fermato la macchina mediatica, ormai messa in moto, ma soprattutto le testimonianze di tanti ex dipendenti che hanno preso coraggio e rilasciato dichiarazioni sempre più gravi nei confronti di un’azienda il cui motto è "every voice matters" (letteralmente "ogni voce conta").
Cattiva gestione e pressioni finanziarie, problemi di comunicazioni e scadenze impossibili, produzione disorganizzata e mole di lavoro eccessiva, sono state tutte concause che hanno portato diversi dipendenti a episodi di ansia, depressione e molto altro, nel generale disinteresse dell’azienda. Un quadro che, insomma, si è fatto sempre meno rassicurante fino ad arrivare alla lettera aperta del 26 luglio firmata da oltre mille dipendenti e indirizzata ai piani alti della dirigenza per richiedere un netto cambio di direzione.
I dipendenti si sono dichiarati disgustati dal comportamento di Activision Blizzard a seguito delle accuse, così come hanno trovato rivoltanti alcune dichiarazioni interne, specificando come i loro valori come dipendenti non si riflettessero affatto nelle parole e nelle azioni dell’azienda. È emersa sfiducia verso i piani alti, a cui ha fatto seguito la richiesta di dichiarazioni ufficiali che riconoscessero la gravità delle accuse mosse e che chi di dovere si prendesse le proprie responsabilità. A questa lettera ha fatto seguito, il 28 luglio, uno sciopero durato quattro ore nel corso del quale i lavoratori hanno manifestato apertamente con cartelli di protesta, mentre una delegazione scelta collettivamente si è resa disponibile a parlare della situazione con i giornalisti.
Il supporto da parte dell’industria videoludica di tutto il mondo è stato unanime, così come il sostegno in loco, e la manifestazione è stata ulteriore occasione per confermare le accuse mosse dal DFEH, aggiungendo nuovi e terrificanti retroscena. Soprattutto, sottolineando la mitizzazione degli sviluppatori fino al punto da renderli intoccabili "nonostante facciano un sacco di str****te". Un esempio fra i tanti quello dell’ex-senior creative director Alex Afrasiabi e della sua cosiddetta Cosby Suite, una vera e propria stanza delle molestie che prese il nome dall’attore Bill Cosby proprio dopo la condanna dell’attore americano per stupro nel 2018.
Storie come questa abbondano nello storico di Activision Blizzard, con dichiarazioni riguardanti una cultura del bere arrivata a livelli folli, una condotta sessuale inappropriata durante le feste aziendali di fine anno o, addirittura, il fatto che una stanza adibita all’allattamento al seno fosse sprovvista di lucchetto e gli uomini entrassero per rimanere semplicemente lì a osservare, al punto da costringere le donne a urlare loro di uscire.
Persino al di fuori di molestie o abusi, il trattamento riservato alle donne è stato confermato essere lo stesso molto iniquo: da valutazioni basate su capacità sociali e culturali, anziché tecniche come sarebbe stato ovvio, fino a situazioni in cui sembrava impossibile poter richiedere permessi per visite mediche, persino a fronte di gravi complicanze per la salute, sono solo alcune delle numerose situazioni emerse non strettamente legate a maltrattamenti di natura sessuale. Ancora una volta, un portavoce di Activision Blizzard ha negato molte di queste accuse, soprattutto quelle legate al supporto delle donne incinte che viene, invece, molto valorizzato.
A fronte delle numerose dichiarazioni, nonché della denuncia mossa dal DFEH, è difficile fare una stima di cosa possa accadere in futuro e fino a che punto il riconoscimento dei propri diritti da parte dei dipendenti potrà avere un impatto su Activision Blizzard, in termini di cambiamenti significativi.
È però innegabile che il mito di Blizzard Entertainment, quella narrazione che l’aveva elevata sopra il resto dell’industria videoludica, sia ormai morto e l’azienda debba guardare a un futuro che in questi giorno non potrebbe essere più incerto.