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La grandiosità e la sintesi di Mario Sironi al Museo del Novecento di Milano

La mostra a 60 anni dalla morte del rivoluzionario pittore

La grandiosità di Mario Sironi al Museo del Novecento di Milano

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 Autoritratto, 1904
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 Composizione (Cavalli in fuga e caduto), 1942 ca.
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 Composizione (I costruttori), 1928-29
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 Composizione (La fata della montagna), 1928
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 Donna seduta e paesaggio (La Malinconia), 1927-28
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Mario Sironi, catalogo
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 Il camion giallo, 1919
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 Il camion, 1914-15
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 Il molo (Cavallo bianco e molo), 1921
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 Il pescivendolo, 1925
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L’abbeverata, 1929
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 La famiglia (La famiglia del pastore), 1927-28
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Lazzaro, 1946
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 Modella e statua (La modella), 1927 ca.
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 Natura morta, 1924
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 Nudo e albero, 1931 ca.
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 Paesaggio urbano con camion, 1920
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 Paesaggio urbano, 1925-28
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 Paesaggio urbano, 1927 ca.
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 Pandora, 1921-22
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 Periferia (Il tram e la gru), 1921
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 Mario Sironi
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Testa, 1913
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Studio preparatorio per La Giustizia tra la Forza, la Legge e la Verità, 1938 (particolare)
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 Studio preparatorio per La Giustizia tra la Forza, la Legge e la Verità, 1938
“Mario Sironi. Sintesi e grandiosità” è la retrospettiva a cura di Elena Pontiggia e Anna Maria Montaldo, direttrice del Museo del Novecento, in collaborazione con Andrea Sironi-Strausswald (Associazione Mario Sironi, Milano) e Romana Sironi (Archivio Mario Sironi di Romana Sironi, Roma).

L’arte di Sironi non è facile, non è dolce, non è simpatica e non è ruffiana. E il lungo cammino che ha fatto per conquistarla è stato irto e impegnativo: “Mi è sempre stato rimproverato - ha scritto - di non occuparmi di campi coltivati, pittoresco da giardino, da valle, da collina, da casette sul mare e simili stupidaggini – ma di vedere soltanto rocce deserte altitudini desolate dove l’uomo si misura con la vastità dello spirito”.

Chi lo ha conosciuto racconta di un carattere schivo, malinconico, di un uomo di poche parole, dal viso quasi sempre accigliato e dallo sguardo pensieroso, ma anche di una personalità magnetica, volitiva e passionale. Con la tenacia di un guerriero e la caparbietà di chi sa di avere una missione da compiere, nonostante le crisi depressive che negli anni lo hanno attanagliato, Sironi non si è mai risparmiato, ha lavorato e lottato con tutte le sue forze in difesa dell’arte, lasciandosi guidare da quella rettitudine che aveva dentro di sé e che non avrebbe mai rinnegato poiché l’arte, diceva, “esige grandezza, altezza di principi”, prima di tutto morali e intellettuali.

Pittore, architetto, illustratore, scenografo, critico d’arte e poeta, Sironi ha prestato il fianco a tanti ruoli e sempre con coerenza irreprensibile, prefissandosi di arrivare in ogni campo a “un «vero» superiore”, perché per lui è questo lo scopo vero dell’arte.

Sintesi e grandiosità sono i capisaldi della sua ricerca e, non a caso, sono i termini che connotano il titolo scelto per la bella retrospettiva che il Museo del Novecento di Milano propone fino al 27 marzo 2022. Oltre cento sono le opere che, a sessant’anni dalla morte, ricostruiscono l’intero percorso dell’artista con alcuni capolavori che non comparivano in un’antologica sironiana da quasi mezzo secolo (l’affascinante Pandora, 1921-1922; Paese nella valle, 1928; Case e alberi, 1929; L’abbeverata, 1929-30), e altri completamente inediti.

Ampiamente rappresentato è il ciclo dei paesaggi urbani, forse il suo tema più noto, che acquista intensità dopo il suo arrivo a Milano nel 1919 ed esprime sia la drammaticità della città moderna, sia la potente e visionaria volontà costruttiva. Le sue sono forme esatte e rigorose, sono città silenziose e dolorose, ma imponenti. Sintesi di un paesaggio urbano (1921), ad esempio, è un reticolato di linee perpendicolari che costruiscono parallelepipedi con spigoli vivi e spessori fortemente ombreggiati. Non ci sono alberi, non ci solo aiuole, non ci sono vetrine, ma blocchi austeri che si raggiungono inerpicandosi lungo una strada fortemente scoscesa e che s’interrompe bruscamente, con un taglio orizzontale, contro un cielo carico di presagi. La sintesi, un termine usato spesso anche dai futuristi, è qui radicale, anzi lapidaria. 

Nei paesaggi di Sironi non c’è segno di vita, eppure, anche quando l’uomo non è rappresentato è di lui che si parla, in un racconto che non è cronaca, ma dimensione etica e mitica. E se nella stagione novecentista Sironi dà dell’uomo un’immagine greve, ma potente; fa sfilare architetti, costruttori, lavoratori impegnati in un compito duro, però solenne, dalla metà degli anni quaranta dipinge invece uomini sigillati dentro a blocchi di pietra, circondati da muraglie gigantesche e inespugnabili.

“Al volitivo «tu devi» - scrive Elena Pontiggia, la studiosa che in questi anni più si è più occupata dell’arte di Sironi e che, con Anna Maria Montaldo, ha curato la mostra -, l’imperativo categorico cui obbedivano le figure precedenti, si sostituisce un amaro «tu non puoi»”, ribaltando così la prospettiva iniziale e rendendo tangibile tutta l’amarezza della vita. In altre parole, al mondo del fare subentra il mondo del limite; al vigoroso lottatore, pronto al lavoro e all’azione, si sostituisce un popolo di inerti o tutt’al più capaci di piccoli gesti, di percorsi modesti, in un destino immobile e immodificabile. Alla mitica progenie si sono sostituite figure minime, che assistono fiacche e silenziose al franare del mondo. E tra quel rovinare di rocce gli esseri soccombono o mettono in atto quello che Sironi ha lasciato scritto in un verso: “vedere la morte, andarle incontro e dirle portami via” perché vivere è il primo dei misteri inaccessibili.

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