La pandemia ha accelerato i trend che già erano in atto prima del Covid. Con i vari lockdown, gli italiani hanno avuto più tempo per stare in casa, facendo così più acquisti online, guardando di più Netflix e Prime Video. Ma non solo. Le categorie di lavoratori che non sono state colpite dai danni economici, hanno anche avuto modo di accrescere i propri risparmi, non uscendo e quindi non spendendo. Ad aumentare è stato anche il numero di chi si è avvicinato al trading online: ricerche su parole chiave come Forex, futures o Bitcoin sono cresciute da 1,5 milioni al mese, fino a 3,6 milioni nel periodo del lockdown. Attenzione, però, perché anche sui guadagni ottenuti con app di trading online, bisogna pagare le tasse.
LA TASSA SULLE RENDITE FINANZIARIE
Le rendite finanziarie in Italia sono soggette a tassazione. Facciamo un esempio molto semplice: compro un’azione a 100 euro, la rivendo a 200 euro. Il guadagno è di 100 euro, commissioni a parte. Questa plusvalenza è soggetta all’imposta sul rendimento (capital gain), pari al 26%. Si paga il 12,5%, invece, nel caso dei Titoli di Stato. Quindi incasserò 74 euro (100 euro di guadagno meno 26 euro), ottenendo quindi un accredito di 174 euro sul conto. In questo caso la banca ha agito da sostituto di imposta, trattenendo la somma di capital gain che girerà poi all’Erario. Ma nel caso di piattaforme estere o app sullo smartphone, che fare?
BISOGNA PAGARE ANCHE CON IL TRADING ONLINE
Negli ultimi mesi le app che consentono di fare trading online sono sempre più diffuse. E il caso Gamestop ne è una prova evidente. Ma se per aprire un conto online serve pochissimo tempo, non si può certo dire lo stesso nel caso del pagamento delle imposte su eventuali rendite. “Ad oggi la normativa di riferimento rimane quella dell’articolo 67 del Testo unico in materia di imposte sul reddito relativo al capital gain”, spiega al ilgiornale.it Filippo Caruso, avvocato tributarista. “In linea generale si può affermare che chiunque investe fa trading online e deve ricordarsi che ogni provento realizzato deve essere tassato e, se il denaro investito è trasferito all’estero, deve anche essere dichiarato nel quadro RW del Modello Redditi ai fini del monitoraggio fiscale”.
COSA SI RISCHIA
Solitamente anche per le rendite derivanti da attività di trading online si paga il capital gain con un’aliquota pari al 26%. “Ci possono essere casi in cui è prevista la tassazione marginale, ossia il guadagno si somma agli altri redditi prodotti nell’anno e sconta la relativa aliquota Irpef”. E chi si dimentica di dichiarare, cosa rischia? “Qualora l’investitore non dichiari le operazioni al Fisco, oltre a vedersi accertata l’imposta relativa alle plusvalenze realizzate, rischia di incorrere in sanzioni amministrative e, superate determinate soglie, anche penali”. Sugli importi non dichiarati, infatti, si possono applicare sanzioni salatissime che arrivano fino al 240% dell’imposta evasa.
FINO A 14 ANNI PER GLI ACCERTAMENTI
Il Fisco si prende il suo tempo. Fino a 7 anni, per gli investimenti effettuati genericamente su piattaforme estere. Ma il termine si può prolungare fino a 14 anni, nel caso di operazioni effettuate in alcuni Paesi considerati dall’Agenzia delle Entrate “a rischio”. Prima di ricevere un eventuale cartella esattoriale, l’investitore-contribuente che decide di pagare la tassa su quanto guadagnato, può optare per un ravvedimento operoso. Diversamente, potrà valutare soluzioni di pagamento agevolato, una volta ricevuto l’accertamento.
COME FUNZIONA LA TASSAZIONE
Il capital gain, ossia il “guadagno in conto capitale” è regolato dal Dl 66 del 24 aprile 2014 e riguarda gli scambi di strumenti finanziari come azioni, obbligazioni, derivati e valute. Prima l’aliquota era fissata al 20%, poi con l’ultima disposizione di legge la soglia è stata alzata all’attuale 26%. Ma nel caso un investimento generasse una perdita (capital loss), allora c’è la possibilità di recuperare le minusvalenze con successivi investimenti. In questo caso si accumula una minsvalenza che è possibile utilizzare per abbassare la tassazione di eventuali plusvalenze future. La minusvalenza, infatti, genera un credito fiscale che può essere recuperato nei 4 anni successivi.
OCCHIO ALLE MINUSVALENZE
Attenzione perché, come sempre accade quando si parla di tasse e fisco, non è tutto così semplice come sembra. Ci sono alcuni strumenti finanziari, infatti, che non consentono di recuperare la perdita maturata. Si tratta di quelli che secondo il Fisco generano i cosiddetti “redditi di capitale”, come ad esempio gli Etf, i fondi comuni di investimento, i dividendi delle azioni e le cedole delle obbligazioni. Le minusvalenze, invece, si possono recuperare e compensare con strumenti che generano “redditi diversi”, come le azioni, obbligazioni, Etc, Etn, futures e certificate.
UN ESEMPIO PRATICO
Un investitore ha in portafoglio un fondo di investimento che genera una perdita di 1.000 euro. Se decidesse di venderlo - perché i guadagni o le perdite si realizzano solo nel momento della vendita dello strumento finanziario - maturerà per l’anno in corso e fino ai successivi 4 anni, una minusvalenza di 1.000 euro. Se vendesse delle azioni, maturando un guadagno di 1.500 euro, allora pagherà il capital gain del 26% soltanto su 500 euro, poiché gli altri 1.000 euro verrebbero incassati senza imposte, compensando così la minusvalenza in essere.