C’è un gioco che Sega continua a mettere in valigia e a portare con sé a ogni nuovo viaggio, verso un’altra generazione di console, dentro l’ennesima rivoluzione di modelli distributivi e su abbonamento. Ce ne sono svariati in realtà, ma tra questi trova molto spesso spazio Dayton USA. Lo si può comprare e scaricare ancora oggi sulle console di Sony e Microsoft o anche godere in streaming grazie a PlayStation Now.
Quando il sontuoso cabinato di Daytona USA ha iniziato a circolare nelle sale giochi di tutto il mondo, si è avuta la conferma che Sega avesse ormai totale e strabordante confidenza con lo sviluppo di giochi in tre dimensioni. Era il 1994 del Divin Codino che si era già dribblato tutti ma che aveva anche sparato il pallone di qualche centimetro sopra alla storia. Era il 1994 che non aveva ancora chiara la portata della rivoluzione chiamata PlayStation, pronta a esplodere da lì a qualche mese. Era, soprattutto, il 1994 che veniva dopo il 1993 di Virtua Fighter o il 1992 di Virtua Racing. Annate che faranno toccare al gruppo di Tokyo dal marchio blu vette tanto alte, da condannarlo poi a una caduta rovinosissima.
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Rimanere impassibili di fronte allo spettacolo di Daytona USA, nel 1994, era preoccupante e potenzialmente dannoso.
Daytona USA era potenza abbagliante, frutto evidentemente di tecnologia aliena consegnata ad Am-2, la squadra di sviluppo che incarnava la leadership di Sega. Passare davanti al cabinato di Daytona USA equivaleva a doversi fermare di fronte al cabinato di Daytona USA. Gli appassionati di videogiochi lo facevano perché storditi da un impatto visivo fuori da ogni scala e spettinati da una sensazione di velocità e di arroganza impareggiabili, desiderosi di riversare fiumi di gettoni nelle feritoie. Tutti gli altri si facevano bastare quella sensazione di essere testimoni di qualcosa assolutamente fuori dal normale. Il passaggio di consegne dall’epoca dei Pac-Man e dei Galaga era ormai definitivo.
In pista Daytona USA si limitava a un compito discreto, per quanto efficace e divertente. Dopotutto il modello era quello dei giochi di guida da una manciata avara di minuti. Veniva replicata la possibilità di scegliere l’inquadratura grazie a una serie di pulsanti, come già visto in Virtua Racing e se si aveva la fortuna di trovare uno dei set da più postazioni (fino a 8 “cassoni” potevano essere collegati tra di loro), si poteva godere il gioco al suo massimo. Solo tre i tracciati presenti, numero che oggi troveremmo incommentabile, ma che nel mercato arcade dell’epoca era la norma.
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Celebre quanto il gioco è la sua sigla cantata, sparata nelle orecchie dalle casse poste sul poggiatesta in plastica del sedile.
Tra questi spiccava giocoforza l’ovale del Daytona International Speedway, appuntamento fisso per gli appassionati della Nascar che riempiono la cittadina della Florida ogni anno. Solo curve verso sinistra e un gigantesco Sonic scolpito su una parete rocciosa. Gli altri due tracciati viravano verso soluzioni meno prevedibili e più giocose, ma protagonista rimaneva sempre il modello di guida ad alto tasso di drifting e quella roboante pioggia di poligoni finemente texturizzati. Certo, oggi sembra un’insalata di fango del pleistocene, ma è questo il triste destino di chi è salito in cima al podio nel bel mezzo di una rivoluzione tecnologica. Ha piazzato le pietre angolari, ma sulle sue spalle si sono eretti tutti i suoi successori, lasciandolo per forza di cose in fondo.
La conversione per Saturn, console rivale di PlayStation lanciata negli stessi giorni alla fine del 1994, avrebbe dovuto rappresentare la freccia più importante nell’arco dell’hardware successore del Mega Drive. Un modo per rimettere immediatamente al suo posto Sony e PlayStation, che intanto si era affidata a Namco con il suo Ridge Racer, per avere qualcosa di simile da piazzare sugli scaffali. La storia andò così: Dayton USA su Saturn fu un mezzo pasticcio e una delusione totale, Ridge Racer frantumò mandibole e dilatò pupille come il suo antagonista aveva fatto in sala giochi. Fine dei giochi.