C’è solo un pericolo più insidioso dell’ignoranza assoluta: la conoscenza superficiale. Potrebbe essere il motto dell’incontro avvenuto il 7 settembre tra Gilles Kepel, accademico e saggista fra i più influenti nel campo degli studi arabo-islamici, e Azzurra Meringolo, redattrice della sezione esteri del Giornale Radio Rai, nell’ambito del Festival della Letteratura di Mantova e in concomitanza con l’ultima avventura editoriale dell’autore francese: Uscire dal caos (Raffaello Cortina Editore, 2019).
Potrebbe esserlo a patto che lo si adotti con cautela, dal momento che l’incursione del politologo nella città lombarda ha avuto, per l’appunto, il carattere di un implicito j’accuse contro gli slogan e le approssimazioni giornalistiche, che rendono il Bacino Sud del Mediterraneo e il Medio Oriente teatri di preconcetti europei, più che ambienti politici complessi, non sempre conformi all’idea che se ne ha nel Vecchio Continente. O meglio, nel Nuovo; giacché, per Kepel: “L’Europa è da tempo schiava intellettuale degli Stati Uniti”.
Frase che è uno dei molti colpi di staffile con cui il Professore, tra un aneddoto e una concessione all’ironia, ha sferzato il folto pubblico italiano, accorso a Palazzo San Sebastiano per ascoltarlo. L’aspettativa non ha tradito le attese: un’ora e un quarto di scavi alla ricerca di una realtà sepolta tra i libri, al riparo dalla luce onirica dei talk show. Fino alla fine, tutto d’un fiato; anche quando le mani (pardon, le parole) hanno cominciano a dolere. La fatwa di Khomeini ai danni di Salman Rushdie, del 14 febbraio 1989? Non una irrazionale manifestazione di fanatismo, quanto, piuttosto, una deliberata e vincente operazione mediatica del governo (sciita) di Teheran, per oscurare la vittoria (prevalentemente sunnita) del jihad in Afghanistan, culminata il giorno successivo con la definitiva cacciata dei sovietici dal Paese.
Insomma, un capitolo della secolare guerra per l’egemonia politico-religiosa che divide il mondo islamico e di cui l’Occidente (con le sue indignazioni) è spesso strumento inconsapevole. La guerra del Kippur (o di Ramadan, a seconda delle definizioni) del ’73 un trionfo israeliano sugli arabi? È una visione incompleta, poiché proprio quel conflitto determinò l’ascesa dell’Arabia Saudita, sull’onda della crescita vertiginosa dei prezzi del petrolio. E ancora: l’odierna Arabia Saudita è un alleato di ferro di Washington, così come si dice? Senz’altro, ma è anche un interlocutore privilegiato di Mosca, a fronte del comune interesse alla stabilità del prezzo del greggio. “Perché la Russia”, provoca Kepel, “più che una superpotenza, va ora considerata una petromonarchia”. Che dire, poi, di Bashar al-Assad? È veramente il minore dei mali, in funzione di argine alla islamizzazione politica della Siria? Forse, ma va ricordato che fu lui a far liberare un ampio numero di estremisti religiosi dalle carceri del regime, nella speranza (poi concretizzatasi) di inquinare una protesta nata laica, suscitando le inquietudini della comunità internazionale al fine di assicurarsene l’appoggio; e fu sempre il suo governo ad acquistare dall’ISIS ingenti quantitativi di petrolio semiraffinato (così come la Turchia e perfino l’Iran), assecondando una pericolosa realpolitik.
“Vedete, il petrolio ha un profumo particolare, ma finisce per non puzzare. […] Sui canali di finanziamento dello Stato Islamico c’è molto da approfondire, ma chi non sa parla e chi sa non parla”. Non è mancato lo spazio per una delle questioni più spinose della fase attuale, iniziata con la caduta di Raqqa nell’ottobre 2017 e definita dallo studioso parigino “il momento della polverizzazione”: ovvero, il ritorno nei Paesi di origine di migliaia di foreign fighters, partiti fischiettando le note dei pifferai magici del Califfato o inseguendo, addirittura in autonomia, un sogno di avventura che ha presto salutato il romanticismo per dare posto all’orrore.
Sul loro destino il dibattito è acceso. Che farne? Abbandonarli alla giustizia di Stati come la Siria e l’Iraq, in cui, almeno sino a oggi, gli standard di rispetto dei diritti umani e processuali non sono certo garantiti? Lasciarli negli Stati di approdo, con una tutea internazionale affidata alle pressioni diplomatiche? Oppure farli rientrare, con tutti i rischi del caso in fatto di sicurezza pubblica? Sul punto, Kepel è perentorio: “Le amministrazioni penitenziarie dei Paesi europei non sono attrezzate per gestire il loro rimpatrio. La prigione funziona solo se non c’è omogeneità tra i detenuti. In questo caso, il rischio è troppo elevato”.
Una raffica di pragmatismo che non ha scomposto la capigliatura un po’ rada di quello che fu, per sua stessa definizione, “un giovane estremista di sinistra pieno di speranze nel futuro delle democrazie e del socialismo”. Così, tra un accento acuto e uno grave, un’attesa e un neologismo (il Professore ha rinunciato alla traduzione simultanea per cortese riguardo al pubblico), Kepel ha delineato quella che, per lui, è la funzione dell’intellettuale nel campo delle relazioni internazionali: smontare i falsi miti, creare le condizioni del dialogo (“perché ci può essere dialogo solo se ci si conosce”) e avventurarsi con coraggio nello studio, anche quando questo risulta sgradito (“in alcuni settori dell’Islam dà fastidio che un non islamico si occupi di questioni di fede, ma io dico: solo i pesci possono studiare ittiologia?”). Un credo non esente da rischi, vista l’attribuzione allo studioso di una scorta, a seguito di alcune minacce di morte ricevute nel 2016 tramite il web e nate, a suo dire, nell’ambiente carcerario francese. Ma alla paura ognuno reagisce a suo modo. “A me”, scherza Kepel, “fa venire la sciatica”.