LA PROVA CARDINE

Delitto Macchi, avvocato in aula: un mio cliente scrisse la lettera, non Binda | Ma la sua identità resta misteriosa

L'avvocato Piergiorgio Vittorini mette in dubbio la prova chiave dell'accusa contro Stefano Binda. L'autore della missiva non si presenta: non avrebbe alibi per la notte del delitto

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Il segreto mi sta "lacerando l'anima, ho una famiglia, dei figli. Ho scritto io la lettera inviata alla famiglia di Lidia Macchi". A parlare al processo d'Appello a Stefano Binda (accusato di omicidio) è l'avvocato Piergiorgio Vittorini che riporta quanto riferito da un cliente il quale dice di aver scritto la lettera (prova chiave per l'accusa) come forma di protesta e di non volersi mostrare perché non ha alibi per la notte del delitto avvenuto nel 1987.

Secondo gli inquirenti, quel testo inviato alla famiglia Macchi e intitolato "In morte di un'amica", fu scritto dallo stesso imputato, che era stato condannato in primo grado all'ergastolo per omicidio volontario aggravato dalla violenza sessuale.

Nella sua testimonianza questa mattina in aula, il penalista ha riferito che una persona si sarebbe presentata nel suo ufficio, alla fine del febbraio 2017, sostenendo di avere scritto la missiva come forma di "protesta" contro una morte ingiusta. "Non conoscevo Lidia Macchi, ma condividevamo lo stesso contesto di Comunione e Liberazione a Varese", avrebbe detto il cliente a Vittorini.

Cliente che sarebbe anche "una persona laureata, con un alto livello professionale". Secondo la testimonianza del penalista, il suo cliente gli avrebbe detto di non essersi mai presentato prima alla polizia perché non è in grado di fornire un'alibi per la sera del delitto. "In quel periodo ero a Milano - ha detto - ma non riesco proprio a ricordare dove fossi la sera del delitto".