Interrogando la forma e la funzione dell'abito, le riflessioni dell'architetto Bernard Rudofsky hanno regalato a Maria Grazia Chiuri una nuova visione concettuale della haute couture, in quanto arte il cui scopo è quello di vestire corpi sempre diversi, dotati di un’identità propria.
È proprio basandosi su questa relazione rimessa al centro da Rudofsky tra abito e abitare, tra moda e architettura, due discipline i cui concetti si rapportano al corpo umano e alle sue proporzioni, che Maria Grazia Chiuri decide di far sfilare la collezione haute couture Autunno-Inverno 2019/2020 nell’Hôtel particulier di Dior. Questo edificio originario della Maison, il numero 30 di Avenue Montaigne, è il luogo dove i diversi Direttori Artistici hanno lavorato a stretto contatto con gli atelier.
Fra le diverse ispirazioni per questa collezione, vi sono le opere di Penny Slinger, artista femminista autrice della scenografia della sfilata. Definite dalla grana del bianco e nero, queste opere raccontano la forza alchemica del fuoco, dell’aria e dell’acqua, al centro di una natura aspra e misteriosa abitata da creature femminili. Queste figure da sempre sostengono il peso del mondo, come un’interpretazione contemporanea delle cariatidi, sculture che prendono forma in corpi di donne e sostengono l’architettura dei templi antichi o decorano gli edifici parigini vestite con tuniche dalle linee pure, come l’unico abito bianco ideato da Maria Grazia Chiuri per una collezione che esplora la forza multiforme del nero.
“I could write a book about black…” scrive Christian Dior in The Little Dictionary of Fashion. Il “peplo”, la tunica che indossavano le donne nell’antica Grecia, non ha tagli definiti o costruiti: è il corpo che ne guida la forma. Christian Dior, nella sua ultima collezione, sceglie di riutilizzare questa forma essenziale di drappeggio, stabilendo così un dialogo fra le nozioni di couture e architettura, oscillando fra forme morbide e quelle più costruite. Dunque, sullo sfondo si staglia oggi il seguente interrogativo: “Are Clothes Modern?”, quesito, questo, che sottolinea la capacità della haute couture di mettere in questione la modernità.
Firmare una collezione quasi completamente nera, rotta solo da rare esplosioni di colori che ne rivelano la forza assoluta, vuol dire ripartire dagli elementi cardine, le fondamenta della haute couture, e confrontarli con i modi di vivere contemporanei. Il nero esige la perfezione e dà vita in questo caso a delle cappe che si trasformano.
Ogni abito è un edificio che non ha paura di mostrare la sua struttura, l’impalcatura che lo regge e lo definisce. “Non ci vuole un nuovo modo di costruire, bensì ci vuole un nuovo modo di vivere” aveva affermato lo stesso Rudofsky. Allo stesso modo, questa collezione disegna un paesaggio inedito capace di rimettere in questione le nozioni di corpo, abito e habitat, rendendo la haute couture un laboratorio di creazione in grado di rivisitare e ripensare diversamente l’abito e il suo rapporto con lo spazio e con il tempo.