In un recente saggio di Giovanni B. Sgritta e Michele Raitano dal titolo "Generazioni: tra conflitto e sostenibilità", pubblicato su "La rivista delle politiche sociali" - gli autori prendendo atto della ciclicità del tema - ne sottolineano subito la specificità inedita correlata alle dinamiche del presente, rapportandole ai temi che le caratterizzano nel secondo dopoguerra: la rivoluzione demografica, l’indebolimento dei sistemi di welfare, il declassamento dei titoli di studio, l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro e le sue tutele, i cambiamenti in atto nella famiglia. L’assenza di politiche giovanili e il convogliamento degli investimenti nella terza e quarta età hanno di fatto creato le condizioni per una divaricazione in termini di diritti e di fruibilità, sofferta come precipua condizione di disagio e di difficoltà di accesso al mondo del lavoro da parte dei giovani. Un gap che ha reso la precarietà il correlato speculare antropologico del nostro tempo.
Se nel 1951 (primo censimento del dopoguerra) i giovani fino ai 19 anni erano il 26,5 % del totale, nella proiezione del 2020 arrivano appena al 17%; viceversa gli ultra65enni che allora erano l’8,25 si preannunciano triplicati al 23%, così che l’indice di vecchiaia risulta in tendenza parimenti triplicato e quello giovanile dimezzato, mentre l’incidenza della povertà assoluta tra gli under 34 anni è del 9,6% (del 16,3 quella relativa) contro rispettivamente il 4,6% e il 10% degli over 65.
L’analisi delle cause di queste divergenze induce gli autori della ricerca a soffermarsi sulla svolta iniziata nella prima metà degli anni '70, in coincidenza con il venir meno dei presupposti che avevano costruito lo stato sociale nella fase di crescita economica: l’equilibrio demografico, la piena occupazione e la stabilità familiare. Ciò che avrebbe determinato lentamente un riorientamento delle scelte della politica in rapporto ai pesi demografici di giovani e anziani: a motivo del calo delle nascite e dell’allungamento della vita la popolazione era infatti destinata ad invecchiare. Iniziava una lenta deriva di trasferimento delle risorse dalla popolazione lavorativa a quella inattiva che avrebbe portato ad una riduzione della produttività e della crescita economica (possiamo aggiungere fino all’attuale stagnazione e all’incipiente recessione).
Significativo l’esempio del sistema previdenziale che si basa sul trasferimento di risorse tra chi le produce- perché lavora – e chi le riceve in modo differito in quanto inattivo. Questo implica una sorta di “patto intergenerazionale” che prevede che questo travaso di risorse sia rispettato anche per le generazioni future, ipotizzando un equilibrio tra produzione e stabilità della composizione dei rispettivi ambiti demografici. Ma – come abbiamo visto- l’allungamento della vita e l’invecchiamento della popolazione creano un surplus di percipienti rispetto all’area della produttività, ciò che determina a carico di quest’ultima un’erosione del reddito per compensare la copertura delle rendite differite degli inattivi.
I decisori politici degli anni 50/70 puntando, per finalità di consenso elettorale, ad una riproducibilità per gli anni a venire del sistema di protezione sociale degli inattivi hanno di fatto cristallizzato quella generazione come beneficiaria di una condizione sociale irripetibile, creando le basi della crisi del sistema e delle sue distorsioni. Gli autori parlano di una sorta di “Weltanschauung” (visione del mondo) fondata sul sovraccarico delle famiglie e delle donne, che ha prodotto calo delle nascite, permanenza dei giovani in statu pupillari (cioè a carico dei genitori), ulteriore squilibrio demografico, freno della mobilità e ostacolo al lavoro femminile. Sostiene M.Ferrera che in quegli anni (50/70) la nostra politica sociale “era imbevuta di maschilismo, familismo e pensionismo”, a differenza di Francia, Germania e Olanda che realizzarono “opzioni universalistiche”, cioè assegni familiari a tutti specie a tutela dei minori (vedasi, oggi, i nostri REI e reddito di cittadinanza).
La difesa della famiglia come centro di imputazione dell’economia domestica, osservano gli autori, faceva leva sulla prevalente cultura cattolica, sulla concezione familistica della donna e sulla forza solidaristica delle reti parentali. A fronte di ciò la politica scelse una via generosa nella concessione delle pensioni di anzianità – si ricordi il fenomeno delle baby pensioni- con una visione miope della sostenibilità del sistema, ma con un ritorno cospicuo in termini di consenso elettorale. Come sostiene E. Fornero – nella citazione riportata dagli autori - «l’uso politico della previdenza sociale è particolarmente agevole nei sistemi a ripartizione», che celano il rischio di scelte «dettate più da ragioni di convenienza politica di breve periodo che non dal rispetto del contratto intergenerazionale implicito nel sistema» (E. Fornero – “Chi ha paura delle riforme, 2018).
Quella stagione di “euforia previdenziale” (abbandono precoce del lavoro, età pensionabili basse, base retributiva del calcolo…) avrebbe prodotto secondo Monti e Spaventa (“Quanto costerà entrare in Europa”,1992) maggiori tasse e contributi, minore occupazione, minori servizi e minore crescita, con condizioni più onerose per i nuovi entrati nel mondo del lavoro, spezzando il “patto intergenerazionale” che sta alla base di un sistema riproducibile e sostenibile. Ma – come evidenziano Sgritta e Raitano- la questione generazionale va oltre “l’ingegneria della stato sociale e le logiche previdenziali” in quanto legata a fenomeni culturali, sociali e familiari, alla stagione dei “diritti”, alle rivendicazioni, alle identità, alle aspettative e agli stili di vita di giovani, donne e anziani.
Contò molto il ’68, il mutamento percepito dai giovani per gli anni a venire, la contestazione al sistema, il travaglio di un’epoca che finiva e che faceva di essi le «vittime predestinate» delle sue contraddizioni” (Sgritta, 2000, in “Politiche demografiche e sociali, p. 749). Cambiava il metabolismo generazionale, colpendo le fasce deboli, poi la piccola e media borghesia, quel ceto medio il cui fallimento è consistito nel negarsi il presente, proiettando le speranze sulla prole, sul futuro, sul merito scolastico, sulla fiducia nel valore del capitalismo culturale (Bourdieu, 1983), sulla fiducia che “il sistema” dei benefici e del welfare si sarebbe perpetuato ai nuovi ingressi nel mondo del lavoro. Ma lo stato sociale continuava l’opera di protezione della generazione dei padri, mentre il letto di Procuste del welfare andava restringendosi fino a diventare inospitale per quella dei figli, legati alle risorse dell’economia familiare, sconfiggendo la visione spontaneistica del “tutto andrà come prima”. E qui subentra la parte più pregevole della ricerca, quella che spiega che l’alternanza generazionale non è un fatto ciclico che si avvicenda secondo paradigmi ripetibili, poiché ciò avviene mentre mutano il contesto, la vita sociale, i diritti e i doveri, le aspettative, le logiche dei mercati e quelle della competizione e che quell’”una tantum” che si sperava ripetibile rischia di diventare “una semper”.
Le logiche autoreferenziali e solidaristiche di tipo familistico non sono più duplicabili in un contesto sociale aperto e mutato, le tutele non sono le stesse, poiché si può accentuare la disuguaglianza delle opportunità di partenza e di riuscita, aggiungere precarietà a precarietà fino al ‘familismo forzato’ (Morlicchio e Pugliese, 2015) e all’eredità patrimoniale consolidata come fattore di discriminazione sociale. Ciò che gli autori chiamano ‘effetto cicatrice permanente’ potrà rendere i giovani svantaggiati di oggi degli adulti e degli anziani poveri domani. Una globalizzazione del disagio generazionale che sarebbe miope ridurre a un conflitto padri-figli, poiché è in gioco la sostenibilità di un modello sociale e l’immaginazione di uno diverso e migliore.