Un viaggio nel cuore dell'America. Un viaggio senza tempo, che pur con pochi agganci con l'attualità parla degli Stati Uniti oggi. E lo fa con arrangiamenti sorprendenti. E' questo "Western Stars", il nuovo album di Bruce Springsteen che arriva nei negozi il 14 giugno. Primo album di inediti da cinque anni a questa parte e realizzato da solista, senza la E Street Band.
Riuscire a stupire all'alba dei 70 anni con un lavoro del tutto inaspettato nei suoi contorni musicali non è cosa da tutti. Eppure Springsteen, con alle spalle quasi 50 anni di carriera e 18 album in studio, ci è riuscito. Non tanto per la brillantezza della scrittura in testi, che raccontano storie con la vividezza dei tempi migliori, figli di un momento di creatività che sembra essersi lasciato alle spalle, almeno per ora, la fase autobiografica per tornare a guardare ciò che lo circonda. Ma soprattutto per gli arrangiamenti che portano nell'universo springsteeniano un elemento finora escluso, come l'orchestra. E lo fanno innestando le orchestrazioni su brani che, in linea teorica, non sembrerebbero costruiti per ospitarle. Così il country, matrice basica di questo album, incontra come per magia (ma l'album "Magic" non c'entra nulla, per fortuna), le sonorità pop e cinematiche di Burt Bacharach.
In fondo il filo rosso che unisce i due mondi sono comunque gli Stati Uniti, alveo naturale di entrambi gli stili musicali, che Bruce unisce quasi con sfrontatezza, aiutato in questo dal lavoro del produttore Ron Aniello e di una ventina di collaboratori, tra i quali Jon Brion (che suona la celesta, il Moog e la farfisa) Charlie Giordano e Soozie Tyrell. C'è anche David Sancious, che qualcuno in Italia ricorderà sul palco insieme a Zucchero o a Sting, ma che in questo caso è un ritorno dal passato del Boss, essendo stato nella prima incarnazione della E Street Band. E non manca la moglie Patti Scialfa.
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Siamo molto lontani da precedenti lavori solisti come "Nebraska", "The Ghost of Tom Joad" o "Devils & Dust". I primi estratti, pur non esemplificativi del mood complessivo dell'album, abbastanza sfaccettato, avevano però già dato un'idea del fatto che ci saremmo trovati di fronte a qualcosa di inedito. Le atmosfere da "uomo da marciapiede" di "Hello Sunshine" (non certo una scopiazzattura di "Everybody's Talking" ma semmai una citazione), e le ariose aperture di "There Goes My Miracle" avevano tutto per incuriosire. Anche con un comprensibile sopracciglio alzato, perché quest'ultima gioca pericolosamente con una melodia così ruffiana da rischiare di risultare stucchevole. Ben altro spessore il terzo estratto, "Tucson Train", che pure ricorda qualcosa di "The Rising" ("Waiting On A Sunny Day").
Ma in realtà il meglio dell'album è ancora tutto da scoprire. Perché se gioielli ci sono in questo disco sono almeno tre, e costituiscono la spina dorsale del lavoro, piazzandosi in apertura, al centro e in chiusura. "Hitch Hikin'", con un falso crescendo che ti fa credere che stia per entrare da un momento all'altro la sezione ritmica che invece sta solo scaldando i muscoli per il pezzo successivo, crea un'atmosfera che ti catapulta in un attimo sulle strade d'America con rara forza espressiva. Subito dopo "The Wayfarer" è la sublimazione della commistione acustico-orchestrale: o la si ama o la si odia, non accetta vie di mezzo. Il passaggio successivo è sulla title track, dove steel guitar, piano e archi si combinano in un arrangiamento ricco che impreziosisce una melodia tipicamente springsteeniana. E poi si arriva al finale sommesso e poetico di "Moonlight Motel". Attorno a questi capisaldi si trovano comunque altri momenti preziosi sparsi qua e là, come "Stones" o "Chasin' Wild Horses".
Un capolavoro? Certo no. Non manca qualche pezzo riempitivo e in qualche altro, a dispetto delle buone intenzioni, risulta inevitabile chiedersi come sarebbe suonato con la E Street Band. Ma "Western Stars" è comunque un album importante, non superfluo o trascurabile, come purtroppo accadde per la maggior parte delle uscite odierne dei contemporanei di Springsteen. A tratti ispirato come non accadeva da tempo, in alcuni passaggi in grado di rileggere il songbook personale con tatto senza cedere troppo all'autocitazionismo. Un lavoro da ascoltare e leggere al tempo stesso, perché nell'intreccio racconto e colonna sonora offre il meglio di sé.