DALLA SMORFIA AL POSTINO

Massimo Troisi, 25 anni senza le risate malinconiche del comico napoletano

Da quel maledetto 4 giugno 1994 non ci resta che piangere: l'attore partenopeo è stato uno dei più talentuosi della sua generazione. Il suo napoletano "masticato" è diventato una cifra stilistica inconfondibile, così come il suo sguardo

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Il 4 giugno del 1994 si spegneva a Roma, tradito da un cuore fragile, Massimo Troisi, uno dei comici più amati del cinema e della televisione italiana. Nato 41 anni prima a San Giorgio a Cremano, in provincia di Napoli, era diventato celebre prima con il trio La Smorfia, insieme a Lello Arena ed Enzo Decaro, e poi sul grande schermo. Tra i suoi film più amati "Ricomincio da tre", "Non ci resta che piangere", "Pensavo fosse amore... invece era un calesse" e "Il Postino", per il quale ottenne una candidatura postuma agli Oscar.

Venticinque anni fa il cuore di Massimo Troisi si fermò, facendo perdere qualche battito a quello di tutti coloro che lo avevano amato e seguito. Quel cuore che sin da bambino era stato per lui un fardello portato avanti con grande dignitià e discrezione. L'attore infatti aveva sviluppato una grave degenerazione della valvola mitrale in seguito a una febbre reumatica che lo aveva colpito da bambino. Già nel 1976 era stato operato a Houston una prima volta, e in quel giugno del 1994 era in attesa di un nuovo intervento. Qualche mese prima, durante un controllo si era evidenziato un deterioramento delle valvole e durante l'intervento per sostituirle era stato colpito da un infarto. La soluzione sarebbe stata un trapianto di cuore ma lui insistette per girare prima il film che aveva in programma, "Il postino", di Michael Radford. Un impegno portato a termine con grande fatica, quasi come una missione, tanto che il suo cuore smise di battere, nel sonno, poco dopo la fine delle riprese.

Nel grande film realizzato "a quattro mani" con Roberto Benigni, Non ci resta che piangere, i due protagonisti si svegliano nel Medioevo, a Frittole nel Millequattrocento, quasi Millecinque. Ecco, quel 4 giugno di 25 anni fa a noi è capitata la stessa sorte. Massimo ci aveva lasciati portando con sé la sua presenza gigante, ma gentile. Di colpo ci siamo ritrovati senza luce, come lui e Benigni nella locanda in cui si addormentano mentre fuori infuria il temporale.

Lo stesso buio entrambi lo hanno incontrato nei luoghi e sui palchi improvvisati di quello che alcuni hanno definito "teatro delle cantine": la scenografia si spoglia del superfluo, l'attore è da solo e parla con se stesso, quindi con il pubblico, inscenando un unico, grande monologo. E' un atto rivoluzionario di comunicazione, in un mondo e verso un mondo che non vuole ascoltare. Quel teatro, da cui prendono i passi La Smorfia di Troisi-Arena-Decaro e il Cioni Mario di Benigni, è una denuncia di incomunicabilità. Il grammelot Troisi, quel dialetto napoletano italianizzato, masticato, pestato dalla timidezza e da una condizione sempiterna di vessato, è la lingua di tutti i "moderni", di tutti i "contemporanei". Sono passati secoli da quando Pulcinella rappresentava le pulsioni di napoletani e italiani, ma la fame non è passata. Ha soltanto cambiato pelle.

La fame dello Zanni, per dirla alla Dario Fo, è da sempre stata la vera molla del mestiere dell'attore. Lo stesso Totò, l'immenso Totò, ne aveva fatto una cifra identitaria, la linea di confine secondo cui un interprete diventa un vero attore. Quella fame antica, "celebrata" fin dai tempi della Commedia dell'Arte, è mutata profondamente nel Novecento. Il Dopoguerra e gli Anni Settanta ne hanno spostato il centro dalla ricerca del pane alla ricerca di comunicazione, alla necessità di essere compreso, capito o, semplicemente, ascoltato. Gli sketch di cabaret di Troisi esprimono questa condizione, attraverso quel riso amaro che soltanto i grandi artisti napoletani hanno saputo scatenare.

Dal teatro e dall'avanspettacolo Troisi è poi passato al piccolo schermo. Tappa obbligata, per un predestinato come lui (da neonato fu scelto come testimonial per una pubblicità del latte in polvere). Con Lello Arena ed Enzo Decaro, La Smorfia approda anche in prima serata, diventando un fenomeno nazionale. Il pubblico era già avvezzo alla lingua teatrale di Eduardo e al napoletano "sporadico" di Totò, quindi non ebbe difficoltà a tuffarsi nei turbinii vernacolari del trio partenopeo.

Il debutto nel mondo del cinema era solo questione di tempo. Arrivò negli Anni Ottanta grazie all'ammirazione suscitata nel produttore Mario Berardi, il quale diede all'attore (e regista) carta bianca per realizzare quel film che nel 1981 tutti conobbero col titolo Ricomincio da tre. Il linguaggio cinematografico fu giudicato "elementare" dalla critica (inquadrature fisse, pochi movimenti di macchina, regia didascalica). Ma il messaggio, quello arrivò dritto allo stomaco. Anche grazie alle risate, certo, ma soprattutto per la sua volontà indomita e goffa di antieroe e antiemigrante. Un novello Don Chisciotte in lotta contro gli stereotipi "a vento" diffusi nello Stivale, ma allo stesso tempo intimorito dallo sconvolgimento dei valori tradizionali, sulla scia del terremoto sociale suscitato dall'emancipazione femminile.

Con Non ci resta che piangere, Troisi dipinge di disincanto la denuncia sociale e politica. Il 1492, la scoperta dell'America come atto zero del genocidio dei nativi, la rivoluzione spietata di Savonarola: ancora una volta il ponte fra due epoche lontanissime tra loro è l'incomunicabilità tra gli esseri umani. Benigni e Troisi si destreggiano tra paesaggi verdeggianti ed equivoci verbali, ma sbagliano tutto: Benigni, maestro elementare, vede crollare il mito del giorno della partenza di Cristoforo Colombo. La data che ha sempre conosciuto si è rivelata errata, l'umanità gliel'ha comunicata male per secoli. La storia, l'uomo non sono quello che sembrano.

E arriviamo al testamento spirituale, all'ultimo atto, nel cinema come nella vita, della parabola di Massimo da San Giorgio a Cremano: Il Postino. Le parole, così vulnerabili all'incomprensione, sono il linguaggio con cui l'anima disegna il reale. La poesia di Pablo Neruda (interpretato da Philippe Noiret) appare assai più intellegibile dell'italiano corrente e perfino del dialetto a un pescatore prestato al mestiere di portalettere. Non importa quale lingua parli, puoi esprimerti e capire chiunque. Un messaggio potentissimo, veicolato da due occhi nerissimi e malinconici. Niente poteva commuovere più di quello sguardo tremendo e semplice, di quegli occhi nell'istante in cui sembrano sciogliersi. E invece a sciogliersi sono i nostri.