Si dice Burri e si pensa inevitabilmente alla materia: dalle contuse e lacerate superfici di juta, che un Burri-chirurgo ha suturato e ricomposto in geometriche e desertiche topografie terrose, ai Legni, miracolosamente scampati a qualche devastante incendio e allineati lungo orizzonti di pece; dalle Plastiche, sciolte e annerite con il calore del cannello, ai Cretti di caolino, riarsi e sgretolati come il suolo dei deserti, fino ai conclusivi Neri e Oro, nei quali il cellotex si organizza in araldiche e magiche campiture e il nero porta con sé l'imperscrutabile mistero del mondo. "Una volta questa pittura era giudicata scandalosa e lo scandalo era tutto nel giudizio […]. Era e rimane pittura di materia", scriveva Giulio Carlo Argan su "L'Espresso" nel lontano 1975 a proposito dei dieci quadri che Alberto Burri (1915-1995) aveva esposto nel convento di Assisi.
E' proprio nella bellezza della materia che Burri racchiude l’eco delle terribili vicende umane, la forza di un'arte dove il materiale si fa colore, armonia, pensiero: "Le parole non mi servono quando provo ad esprimermi sulla mia pittura. Perché essa è una presenza irriducibile che rifiuta d’essere convertita in qualsiasi altra forma d’espressione. Anche se venissi costretto a parlare del mio lavoro, sarei di certo frainteso. Soprattutto se chi trascrive usa le virgolette. Basta non metterle al posto giusto e non si capisce più di chi è il discorso. Allora meglio il silenzio".
Fino al 28 luglio, a coronamento di un percorso di riconoscimenti internazionali legati al centenario della nascita dell’artista e a corollario di una Biennale un po’ troppo sbadata con gli artisti nostrani, la prestigiosa Fondazione Cini di Venezia ripercorre l’intensa attività del Maestro di Città di Castello, dedicandogli una bella mostra antologica.
Per l'occasione, nelle sale dell’antico monastero benedettino sull'Isola di San Giorgio, sono state riunite una cinquantina di opere, tra cui tre grandi e meravigliosi Sacchi del 1952, larghi ben due metri e mezzo ciascuno, che hanno impressionato persino Rauschenberg, tanto da indurlo a cambiare l'approccio al proprio lavoro e a portarlo, nel 1954, a dipingere i Combine Paintings. C'è poi un nucleo rilevante di Plastiche, con le loro superfici disciolte, rapprese, perforate e un monumentale Cellotex del 1979 di quasi tre metri per quattro, davanti al quale occorre solo una silenziosa e lunga contemplazione.