Pausa caffè con Ualone

Da Cuphead a Sekiro: l'importanza della difficoltà nei videogiochi moderni

Grazie a From Software e a molti prodotti indipendenti, la difficoltà nei videogiochi sembra essere tornata in auge

di Gianluca Loggia

Nei primi anni dopo il 2000, pareva che i videogiochi fossero diventati fin troppo facili. Di sicuro, in questo modo, l’industria è riuscita ad espandersi, raggiungendo nuove fette di pubblico e in particolare tutte quelle persone che, spaventate dalla difficoltà e dalla complessità dei giochi elettronici, non si erano mai avvicinate a questo mondo in passato.

È un riassunto un po’ troppo stringato e generico di un certo periodo storico, ma è vero che in quel decennio la tendenza è stata questa. Negli ultimi dieci anni, invece, un po’ per i lavori recenti di From Software, un po’ per molte produzioni indipendenti fortemente ispirate ai giochi duri e puri d’un tempo, la difficoltà è tornata di moda.

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Dark Souls ha contribuito a riportare in auge la difficoltà come caratteristica di un videogioco.

Chiunque abbia seguito il mondo dei videogiochi nell’ultimo decennio si è sicuramente accorto di quanto il tema della difficoltà sia tornato sotto i riflettori. Tutto è cominciato quando Demon’s Souls prima e Dark Souls poi hanno affascinato un numero sempre crescente di giocatori, grazie a una richiesta di impegno e concentrazione fuori dal comune, per gli standard di qualche anno fa. Chiaramente la difficoltà non è l’unica caratteristica che andrebbe attribuita ai giochi del filone Souls, che sono per lo più splendidi per tanti altri motivi, così come lo sono i loro eredi Bloodborne e Sekiro: Shadows Die Twice, ma è innegabile che parte del fascino di questi prodotti sia da ascrivere proprio al grado di sfida che propongono.

Lo stesso succede anche con alcuni giochi indipendenti di questi ultimi anni, che riportano alla mente il gameplay, lo stile e appunto la difficoltà dei prodotti degli anni ’80 e ’90. Tempi in cui finire un gioco da sala era un’impresa quasi leggendaria, da inseguire e coltivare spendendo un patrimonio in monetine. Oggi, quindi, ai vari tripla-A facili e guidati che comunque continuano a esistere, si sono nuovamente affiancati un bel po’ di giochi difficili, che fanno godere una bella fetta di videogiocatori, e non necessariamente nostalgici. Ad amare le sfide ardue sono anche i più giovani, segno del fatto che, se ben proposta, anche la difficoltà può essere una caratteristica attraente.

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Anche tante produzioni indipendenti, come Cuphead, offrono un bel livello di sfida.

Quanto è importante, quindi, la difficoltà nei videogiochi? Molto. Ma ancora più importante è che il gioco sia schietto e onesto nei confronti dei giocatori. Ed è fondamentale che offra una curva d’apprendimento percorribile e non eccessivamente ripida. Sekiro, per citare l’ultimo gioco di From Software uscito proprio in queste settimane, prova a fare proprio questo: a essere contemporaneamente molto accessibile (è probabilmente il gioco più "leggibile" della software house di Tokyo, che si è allontanata molto dalla cripticità dei Souls e di Bloodborne) e anche molto difficile. Sekiro è infatti a detta di molti, e anche del sottoscritto, il più impegnativo dei giochi From Software, quello con il tasso di sfida sicuramente più alto.

Molti giocatori hanno richiesto a gran voce una modalità facile, per l’ultimo gioco di Miyazaki e soci, e io posso tranquillamente capire questa richiesta, ma non credo di essere d’accordo. I giochi impegnativi, infatti, sono in grado di dare grandi soddisfazioni ogni volta che si supera un grosso ostacolo. In modalità facile, Sekiro sarebbe molto meno bello, molto meno affascinante, molto meno soddisfacente. Giocare in modalità facile prodotti come Uncharted, The Last of Us o altri giochi fortemente incentrati su una trama di buona qualità, ha sicuramente molto più senso. Ma farlo con un Sekiro (o con un Dark Souls o un Bloodborne) non avrebbe la stessa efficacia.