FOTO24 VIDEO24 2

"Portami dove sei nata" di Roberta Scorranese: un libro che racconta un Abruzzo insolito e magico

Nell’anniversario dei dieci anni dal terremoto dell’Aquila, l'autrice scrive un omaggio personalissimo e commosso alla sua terra. In esclusiva per Tgcom24 un capitolo del libro

ufficio-stampa

Una saga familiare narrata con humour e partecipazione. Un reportage su una terra fiera, che, nonostante tutto, conserva la fiducia nella possibilità dei miracoli. E soprattutto una lunga lettera d’amore di una donna che fa ritorno nella terra che ha lasciato da giovane e, cercando le parole per raccontarla, ritrova se stessa e il senso profondo dei giorni. E' "Portami dove sei nata" (Bompiani Overlook, pp.206, euro 16), il libro di Roberta Scorranese, in libreria dal 3 aprile, che racconta un Abruzzo insolito e a tratti magico.

ufficio-stampa

La trama - La campagna, le sue stagioni. Un grande clan familiare: uomini di poche parole, donne custodi di sapienze e sapori, e un segreto taciuto per anni. Mille racconti, tra memoria e magia: la bomba di Zì ’Ntonio, i soldati tedeschi davanti a Pasqualino neonato la notte di Natale, le ragazze con le guance arrossate durante lo svestimento delle pannocchie, il vitello di Cesarino a cui togliere l’ammidia, il destino di Celestina e del suo bimbo “sbagliato”.

Scorranese parte dalle radici per raccontare il suo Abruzzo e tesse una tela che unisce passato e presente: perché il terremoto non cancelli la memoria, perché nemmeno il futuro è pensabile se non si guarda indietro. Così assistiamo al miracolo della Madonna cinquecentesca di terracotta, perduta, ritrovata, frantumata dal sisma e poi rinata grazie alla tenacia degli abitanti di un borgo; conosciamo Peppe e Rosa, che si giocano tutto ai tavoli verdi; scopriamo che c’è chi alle ipnotiche serpi di Cocullo deve la vita; e ci sembra difficile non credere a san Gabriele, che sa perdonare il "peccato grosso" finalmente svelato. 

L'autrice - Roberta Scorranese è nata a Valle San Giovanni, in provincia di Teramo. Vive a Milano. Giornalista, lavora al Corriere della Sera dove si occupa di temi culturali e di attualità.

In esclusiva per i lettori di Tgcom24 un capitolo del libro:

L’AMMIDIA

Campagna intorno a Valle San Giovanni, 1965

Cesarino di Cinciaro alzò gli occhi e rinnegò sant’Antonio. Erano le quattro della mattina e durante la notte aveva piovuto: nella stalla si erano formate pozzanghere di acqua e letame sciolto, i due vitelli si erano incocciati e non volevano alzarsi. Ma porca Majella. C’era la fiera in città, bisognava partire e chi se lo comprava il vitello sporco come un maiale? Cesarino andò a prendere un secchio d’acqua e lo gettò su una delle due povere bestie, che sussultò. Forza, forza, incitò l’animale ad alzarsi. Il problema era il poco tempo: bisognava andare a piedi a Teramo, prendere posto al mercato, fare la corte a Spaccapopolo, il mediatore, regalargli qualche uovo. E poi insomma speriamo che qualcuno ’sto vitello se lo compra. Un letamaio. Fango ed erba umida. La stradina di campagna odorava di terra e a quell’ora della mattina puzzava pure di animali senza nome, quelli che esistevano solo nei versi che laceravano la notte. Cesarino aveva ripulito il vitello alla meglio e si era messo in cammino. Doveva fare due ore e mezza a piedi, aveva indossato gli stivaloni per proteggere i pantaloni dalla melma. Non pioveva più. Era pensieroso. In quell’autunno aveva preso una decisione: “Mi vendo il vitello così mi compro un pezzo di terra da Giggino di Canzino e posso andare a parlare in casa di Rosalia.” La sorella di nonna Chiarina e di Assuntina, una che aveva fatto quarantanove anni, era secca e gobba ma per Cesarino andava benissimo.

Poteva pretendere di meglio? Non che lui fosse un brutto uomo, per carità, nonostante la faccia macchiata dal sole e una leggera radura prossima alle tempie. Vicino ai cinquantacinque, conservava una certa elasticità nel fisico, comune a tanti uomini che, figli unici, non si erano mai sposati. Non aveva vizi, non beveva né giocava: questa innocenza dello spirito, unita alle attenzioni che i genitori gli avevano riservato fino alla loro morte, lo aveva conservato in una singolare giovinezza appassita. E ormai nemmeno gli amici si trattenevano più: “Cesarì, è ora che ti pigli moglie,” lo ammoniva Marescià quando lo vedeva avviarsi verso quella casa persa in mezzo alla campagna, troppo grande, troppo vuota. “Senti chi parla,” ribatteva Cesarino. Ridendo, ma non troppo. Il primo sole. Freddo. Cesarino camminava tenendo il vitello alla corda e faceva i conti: “Se qualcuno oggi si compra la bestia mi guadagno i soldi per la caparra, poi Dio provvede e la terra me la prendo un poco alla volta.” Per la verità, lui aveva già bussato a casa di Rosalia. Ma Assuntina, che ormai faceva le funzioni di capofamiglia, gli aveva risposto che non se ne parlava. “Vedi Cesarì,” aveva spiegato la donna, “un uomo deve spanne a lu sole. Tu che terra tieni?” Eh già, Cesarino di Cinciaro non “spanneva a lu sole”, cioè non possedeva terreni.

Il fatto era che non aveva mai lavorato in vita sua: troppo debole, malaticcio, ripeteva sua madre, che lo aveva cresciuto in una bambagia di affetto e pigrizia. Avevano sempre allevato le bestie, certo, e così oggi Cesarino poteva bere il latte, mangiare il formaggio e qualche volta la carne. Poi si arrangiava a fare qualche lavoretto qua e là nelle proprietà altrui. Ma non “spanneva a lu sole”, quindi niente Rosalia. No, no, serve la terra, perdio. Ormai camminava da due ore, ma non si sentiva stanco. Guardava le vigne di Giovannino di ’Ncocciavaso, ormai cariche di grappoli grossi come mammelle torzolute. Eh, sarebbero da sistemare un poco, pensava, magari levare qualche foglia, aggiustare i fusti. Forse bisognerebbe metterli più distanti l’uno dall’altro, pensava immaginandosi un vero proprietario terriero, come Giggino di Canzino, uno che andava in campagna col gilet. Lui no. Lui si sarebbe messo una bella camicia con le maniche corte, un cappello e avrebbe aspettato Rosalia in mezzo alle viti: se la vedeva arrivare col fiasco di vino in mano, verso le dieci della mattina, quando gli uomini nei campi cominciavano a smaniare per la sete.

Non si accorgeva che, in un modo o nell’altro, da più di due ore stava pensando a Rosalia. Sì, è vero, tiene un poco di gobba, però una volta che si era messa uno scialle verde e si era sciolta i capelli assomigliava alla sorella più piccola, Chiarina. E poi che occhi! Uh che occhi. Cesarino provò a definirne il colore: assomigliava al pantano un poco verde e un poco marrone che si forma nello strolo dei maiali quando piove. Sì sì, era quello il colore, si disse in un barbaglio di felicità, uno dei pochissimi che ricordava di aver provato in tutta la sua vita. Perché quand’è che Cesarino di Cinciaro era stato felice? Forse quando a quattordici anni aveva visto Giuseppina di Mattone che si lavava al fiume senza reggipetto? Ricordava ancora quel calore che gli si allargava come una macchia dolce dalla gola all’inguine, mentre scappava come se avesse visto un essere bizzarro, giunto da antiche mitologie pagane. Oppure quando, a diciotto anni, il padre gli aveva regalato un panciotto nuovo, color segatura? O quando era riuscito a vendere una bella vacca per poi comprarsi due pecore grasse? Boh. Accelerò il passo, rinfrancato. Si sentiva leggero. Ma il vitello no. L’animale cominciò a prendere un’andatura strana. Si fermava e ripartiva. Ohhhii, ohhiii, faceva Cesarino tirando la corda ma senza forzare troppo per non innervosire l’animale. Niente. La bestia si bloccò. Guardò fisso davanti a sé e poi si accasciò. Paf. Un rumore mai udito, che non apparteneva ai suoni familiari della morte, repertorio a cui Cesarino era avvezzo. No, quello era il suono di una stanchezza sconosciuta a chi fatica nei campi, gente educata alla resistenza sotto il sole d’agosto o sotto i fulmini di ottobre. Che succedeva al vitello di Cesarino di Cinciaro? Perché se ne stava a pancia in giù, con le zampe allargate e gli occhi semichiusi, rifiutando di alzarsi e di riprendere il cammino? Cesarino provò a dargli un poco d’acqua raccolta nel torrente mezzo rinsecchito. Figurati, manco apriva la bocca. Ancora un tiro di corda, mannaggia alla Majella. Niente da fare. Passasse almeno qualcuno con un carretto.

Sì, certo: alle sei della mattina. Cesarì ma dove tieni il cervello? No, no. Questa è una cosa seria. Cesarino sedette per terra, col muso vicino a quello del vitello. Aprì con delicatezza l’occhio dell’animale, scrutandolo con attenzione. Era annacquato, febbricitante. Poi sollevò il labbro per osservare la bocca. Niente, la bestia non reagiva. All’ipotesi più spaventosa mancava solo l’ultima conferma e il contadino la trovò tastando la fronte del vitello: scottava. Cesarino si alzò, si mise le mani sui fianchi e cominciò a fare “sì” con la testa. Aveva capito: qualcuno aveva fatto l’ammidia all’animale. Ora, dovete sapere che l’ammidia era il fenomeno al quale si poteva ricondurre ogni sorta di sciagura, dalla febbre alla bancarotta. Era l’invidia, cioè la cattiveria altrui che si posava su uno spirito innocente – e felice – guastandone il destino o i connotati a seconda dell’effetto. Avevi mal di testa? Ma certo, era Rosannina di ’Ttavione che ti stava invidiando il vestito nuovo. Una polmonite improvvisa? E come no, era l’ammidia che ti aveva lanciato Rusinella, gelosa del tuo fidanzato. A Valle, ogni forma di avversità, piccola o grande, non nasceva mai dal malcapitato, ma veniva dagli altri. Pure don Bernardo, nell’intimità del confessionale, qualche volta si limitava a impartire una bizzarra benedizione che alludeva con discrezione all’ammidia. Padre, Figlio e Spirito santo, io ti libero dal cattivo sguardo.

Così in paese il senso di colpa praticamente non esisteva, perché in caso di malasorte due erano le cose: o era stato il diavolo o era stato qualcuno che ti voleva male. Sì ma chi voleva così male al povero Cesarino tanto da fargli stramazzare il vitello proprio nel giorno in cui doveva venderselo per prendere moglie? Il contadino sedette su un sasso con gli angoli smussati, mentre intorno la luce schiariva piano piano la campagna. Sarà stato Tonino di Cecé, uno svelto, uno che, pure se teneva moglie andava accimentando le donne del paese e qualche volta aveva fatto commenti vedendo passare Rosalia di ritorno dalla messa. No, no, si disse scacciando dalla fronte una mosca che non c’era. Tonino non poteva essere. Forse era stato Cesare di Candone, che aveva puntato la terra di Giggino, quella che serviva a Tonino? Oppure era stato Cicculo di Puccino, sempre torvo come un lupo, mezzo matto e incattivito dal vino? Cesarino si mise un dito nel naso. Sì, sì. Era stato Cicculo, ora ne era certo. Lo guardava strano da un bel po’ di tempo e quando si incontravano in piazza quell’altro abbassava la testa. Insomma, l’ammidia veniva da lì, sicuro. Sì, ma mo’ come faccio per il vitello? Cominciò a camminare su e giù per la strada, si grattava la guancia. Poi si immobilizzò. Sì, era l’unica cosa da fare. Prese la corda che passava attorno al collo dell’animale, la tirò dolcemente. La bestia non si muoveva. Allora con dolcezza lo spostò verso il ciglio della strada. Quanto pesa. Lo aveva ingrassato bene. Cesarino teneva due braccia belle forti, allenate a governare vacche e pecore. Riuscì a scostarlo quel tanto che bastava per legare la corda a un albero. Si alzò. Guardò il corpo color marroncino dell’animale che sembrava morto e pensò: tanto qui non passa nessuno. Poi cominciò a correre per la campagna. Tagliò seguendo la terra tra le viti di Giovannino, poi si trovò davanti il torrentello, lo attraversò e risalì per la collina dei Candone. Forse Gino sta in campagna, si disse. Rifiatava a fatica ma non rallentò.

Arrivò fino alla casa di nonno Gino e attaccò a bussare. Tum tum tum. Si affacciò nonna Chiarina, che cosa poteva fare per compare Cesarino? “Chiarì, scusa ma tengo bisogno di te.” “E che ti posso fare io a quest’ora? Gino sta in campagna.” “Lo so, ma devi venire a togliere l’ammidia al vitello, che mi si sente male e sta bloccato in mezzo alla via.” “Oggesù, Cesarì, aspetta ’nu momento.” Nonna rientrò. Cesarino si mise a saltellare ora su un piede ora sull’altro. Era tardissimo. La fiera era cominciata da un pezzo. Già quell’immagine di se stesso in mezzo alle viti con Rosalia che gli portava il fiasco di vino era più sfocata. Ma ecco Chiarina. Nonna stava scendendo dalla stradina laterale alla casa, in mano teneva un piattino pieno d’acqua. Dietro di lei c’era papà. Nonna disse: “Cesarì, io non posso venire che tengo gli uomini in campagna, ti mando Pasqualino.” “Va bene, commà, basta che ci muoviamo.” Cesarino prese il piattino con l’acqua dalle mani di nonna e vide che il ragazzo portava con sé la fiaschetta dell’olio. “Pasqualì, qua dobbiamo correre ché il vitello sta solo in mezzo alla strada,” gli disse. “Compà, sbrighiamoci.” Tutti e due presero a camminare veloce, l’acqua nel piattino tremolava. Cesarino davanti e tu, papà, dietro, magro e bravo a evitare pietre o volpi. Il torrentello, le vigne, quindi la strada che portava a Teramo, dove il vitello stava ancora riverso a terra. Si avvicinarono e si inginocchiarono. Papà mise il piattino all’altezza della testa della povera bestia. Cesarino versò con cura una goccia d’olio: si squagliava! Lo sapevo, esultò il contadino, era l’ammidia. Non perdettero tempo, bisognava recitare la formula magica. Cominciarono insieme: “Du’ ucchie m’ha guardate…”, poi a voce sempre più bassa, perché la formula è segreta, la insegnano solo le donne nelle notti di Natale e non a tutti. Cesarino intinse il dito nell’olio annacquato e sfiorò la fronte del vitello con un segno di croce. Poi tutti e due si misero a sedere. Ancora niente. L’animale non fiatava. Cesarino era stanco.

Sentiva già il tepore rassicurante della rassegnazione. L’olio si era squagliato, è vero, ma forse il destino aveva già deciso e Rosalia doveva invecchiare e ingobbirsi ancora di più senza di lui. Forse da qualche parte stava scritto che lui avrebbe dovuto ingrassare un poco, magari mettersi a bere alla sera, rinunciare per sempre a quella possibilità coniugale che a fatica metteva a fuoco, tanto era disabituato alla compagnia. Forse era stato troppo superbo: immaginare, alla sua età, un matrimonio, una campagna tutta sua, una moglie che viene a dissetarlo nei campi. Un poco d’amore, insomma, giusto una parola buona alla sera, di più non riusciva a concepire. Stava per alzarsi e andarsene, tanto non valeva la pena. Ma poi vide papà che si avvicinava al muso del vitello. Forse no. Forse poteva ancora sperare. La bestia si mosse. Aprì un occhio. Poi tirò su con le froge. Un suono, forse un lamento. Cesarino si alzò piano. Il vitello tremava e gli parve che in quel tremore si scuotessero le viscere della terra. Vuoi vedere che l’ammidia se n’è andata? Vuoi vedere che forse ce la faccio a venderlo e a pagare la caparra e… L’animale si scosse con violenza e provò a rimettersi sulle zampe, non ci riuscì subito e cadde, ma si rialzò con una forza che Cesarino non gli aveva mai visto addosso. Si sistemò e si scrollò con decisione. Il contadino aveva voglia di piangere ma si mise a ridere.

Su su, disse al vitello prendendo la corda e tirando piano lungo la strada, andiamo che è tardi. Papà mi ha raccontato questa storia dieci anni fa. Dopo che la bestia si era tirata su, lui si avviò verso casa con la fiaschetta dell’olio e con il piattino vuoto. Papà, gli ho chiesto, ma tu hai davvero creduto all’ammidia, alla formula magica e a tutto il resto? Lui sorrise e mi disse che le cose, in realtà, erano più semplici: i vitelli di Cesarino non avevano mai percorso più di qualche metro, stavano sempre al caldo della stalla. Era naturale che, alla sua prima “marcia” vera quel povero animale stramazzasse a terra per la stanchezza. Però, aggiunse, lo sguardo cattivo di un invidioso può fare male. Mi raccontava queste cose in un pomeriggio d’estate. Eravamo nell’orto. Passò un gatto. Non risposi. Ero felice.

Espandi