Imbrigliare in categorie semantiche Bendik Giske, sassofonista norvegese di nascita, ma berlinese di adozione, è limitativo. Ma per ragioni giornalistiche non ne possiamo fare a meno. Iniziamo col dire, allora, che Bendik Giske è sperimentazione pura. Lui stesso si definisce un artista queer, qualcosa quindi che va fuori dalla "norma". E anche la sua musica virtuosa e sperimentale - l'anima è quella jazz -, ma nuova, si incanala nelle atmosfere dell'elettronica, nella sostanza "aritmica" della drone music. Forse possiamo azzardare nel dire che Giske è un artista, prima ancora di essere un musicista. E' il suo primo lavoro "Surrender", uscito il 25 gennaio con la Smalltown Supersound, a convincerci di questo.
"Surrender" è una climax sonora dove il protagonista indiscusso è il sassofono di Giske, ma anche i suoi movimenti: durante la registrazione sono stati inseriti microfoni sia sullo strumento sia sugli abiti del musicista in modo tale da captarne ogni suono. E' il risultato di un viaggio spirituale e di un cambiamento cognitivo dopo una notte passata al Berghain di Berlino, ossia il tempio della techno mondiale. “Inizialmente mi sono sentito un idiota come tutti quelli che erano lì”, ha affermato Giske, ma "poi ho iniziato ad abbracciare quella cultura e ho realizzato che ero dove volevo essere. Lo spazio crea un ambiente parallelo che ti coinvolge nel momento stesso in cui ti abbandoni a esso e solo così puoi sentire quanto è vero”.
Surrender vuol dire infatti arrendersi, non opporsi e abbandonarsi. Un verbo diventato la chiave di volta di Giske. Solo eliminando ogni freno inibitorio e lasciandosi andare si può vivere appieno se stessi. Giske ce lo suggerisce con questo suo primo lavoro. Lo fa con la sua musica, trasportando l'ascoltatore in un’altra dimensione. Attraverso il "canto" del suo sassofono e il ritmo degli effetti creati con i microfoni si entra uno stato ipnotico, etereo, sospeso. Una sorta di meditazione contemplativa.
Non è un caso che l’album sia stato registrato nel Mausoleo Emanuel Vigeland di Oslo. Tomba dell'artista norvegese nelle cui stanze dipinse la vita e la morte. Un luogo sacro che può ricordare alla lontana il Berghain di Berlino dove il sassofonista ha, metaforicamente parlando, ucciso una parte del suo sé imbrigliata e non libera per fare spazio alla sua parte più vera e vitale.