Barbara ha solo 27 anni ma la vita l’ha già segnata profondamente. Dal 2013 combatte contro l’anoressia. Un nemico che l’ha portata a farsi del male e a cercare di farla finita. Un nemico che l’ha piegata e messa a dura prova. La giovane, originaria di Roma, però, continua a lottare e ce la sta mettendo tutta per guarire, come racconta lei stessa a Tgcom24: "I meccanismi mentali della malattia fanno parte di me, ma se mi guardo indietro vedo dove non voglio tornare: a quando pesavo 29 chili ed ero costretta a farmi vestire e svestire da mia mamma perché da sola non riuscivo".
Barbara, in questo momento stai intraprendendo un percorso di cura all’ospedale Umbertide, ambulatorio disturbi del comportamento alimentari e del peso.
Sì esatto. Sto cercando di ripartire da zero. Una filosofa che ho incontrato durante il mio primo ricovero a Palazzo Francisci a Todi diceva sempre “non si esce da qui guariti ma con la consapevolezza di sapere da quale parte voler stare” e io forse tutta questa consapevolezza ancora non ce l'ho, però la sto acquisendo. A un certo punto ti accorgi che il cibo è la punta dell'iceberg, è un modo come un altro per esprimere qualcosa che hai dentro. Ormai vivo il qui ed ora e vado avanti.
Una consapevolezza acquisita (o quasi) dopo un lungo e complicato rapporto con la malattia. Puoi raccontarci?
Nel 2013 volevo perdere qualche chiletto e, per questo, ho ristretto l'alimentazione, iniziando a non stare bene. Poi una serie di circostanze familiari (mio fratello ha scoperto di avere un linfoma di hodgkin, i miei genitori hanno perso il lavoro) hanno contribuito a far sì che la malattia peggiorasse. E infatti, da quel momento, ho cominciato a perdere il controllo della situazione. Macinavo chilometri e chilometri con il pensiero di smaltire: andavo a camminare anche quattro volte al giorno. Non mi fermava nulla: la pioggia, la neve, il vento, il caldo torrido. Tutte cose che adesso mi sembrano un po' assurde, ma non ancora del tutto. Nel maggio 2014, mi sono trasferita a Perugia con la mia famiglia (io sono di Roma, ma abitavo in Abruzzo). Appena arrivata, ho scelto di andare via di casa perché non volevo che i miei mi controllassero. A un certo punto, però, la situazione mi è sfuggita di mano tanto che sono arrivata a svenire al lavoro. Il mio titolare ha chiamato mia madre e al pronto soccorso dell'ospedale Silvestrini a Perugia mi hanno fatto la diagnosi.
Qual era?
Anoressia nervosa di tipo restrittivo.
E in ospedale cosa ti hanno consigliato?
Mi hanno detto di rivolgermi all'ospedale Umbertide, sempre collegato a Palazzo Francisci e alla dottoressa Laura Dalla Ragione. Mi hanno seguito fino a settembre 2014. Poi sono stata ricoverata nel reparto Malattie metaboliche endocrinologhe del Silvestrini, dove sono stata all'incirca un mese e dove mi alimentavano per via endovenosa. Ma io riuscivo a staccare la sacca, inoltre camminavo giorno e notte, fumavo e bevevo tanto caffè. Da lì sono uscita pesando ancora meno. Il 16 settembre 2015, sono poi entrata per la prima volta a Palazzo Francisci, dove per quattro mesi e mezzo ho intrapreso un percorso residenziale. Ma anche lì ho ricominciato a perdere peso, a camminare, non tornavo più a casa perché non volevo essere controllata, ho perfino passato il compleanno da sola pur di non dover tornare dai miei e quindi mangiare. Perciò sono andata via. Da maggio a ottobre 2016 sono stata al Pellicano, un'associazione onlus sita a Perugia, un mutuo aiuto: paghi un tot al mese per essere assistito durante i pasti. La situazione però non migliorava, tanto che al Pellicano mi hanno messa alle strette. Mi hanno detto: "O parti per Parma (in una clinica psichiatrica) o tso". Così il 13 ottobre sono andata a Parma, dove il percorso è stato molto intensivo. Lì tengono molto al fatto che il paziente riprenda peso. Ero ricoverata in un reparto psichiatrico, ho visto persone che si tagliavano, altre non rialzarsi dal letto la mattina. Infatti una mia compagna di stanza è morta.
Ti davano anche dei farmaci?
Mi hanno sempre dato antidepressivi e ansiolitici, li prendo ancora. Mi è stata diagnosticata una depressione di tipo maggiore, con personalità borderline. I farmaci che sto assumendo attualmente mi rendono un po' più stabile.
Dopo Parma sei tornata a casa?
Sì, per un paio di mesi è andata anche benino, ho ricominciato con gli ambulatoriali all'Umbertide. Ma poi la situazione è peggiorata nuovamente tanto che ho tentato il suicidio due volte. Questo perché ho sempre pensato di non meritare nulla, neanche la vita.
Quindi neanche il cibo?
Esatto, è tutto collegato. Il cibo è la vita e io non penso di meritarla, quindi lo rifiuto per questo. Se tu mi chiedi: “Davanti a un piatto di penne cosa vedi?” Io rispondo: “Chiodi”. Chiaramente tutto ciò ha una chiave psicologica, che scopri solo tramite la terapia. I motivi per cui uno si ammala sono vari, non c'è un'unica causa scatenante. Non è neanche un fattore estetico, perché non mi è mai interessato nulla di ciò che dice la gente. A un certo punto però ti ritrovi dentro questo vortice e non sai neanche perché.
Dopo cos'è successo?
Il 5 marzo 2018 sono rientrata a Palazzo Francisci. Questa volta di mia spontanea volontà, l'ho chiesto io. Mi è scattato qualcosa. Tornavo da un ritiro spirituale, al mio rientro ho scoperto che mia madre aveva trovato i lassativi che nascondevo (per colpa dei quali ho tantissimi problemi all'intestino, ne finivo anche due barattoli a settimana), le lamette, ecc. Poi al ritiro non potevo mangiare ma non potevo nemmeno non mangiare, era una battaglia interna tra me e l'altra me. Nella testa di chi ha il mio disturbo c'è una vocina cattiva, bastarda che dice “non puoi, non devi, se fai questo non vali niente, se mangi quello devi fare questo, quel cibo ti farà venire x cosa”, quindi stai sempre lì a calcolare, non ti puoi concedere neanche una caramella senza zucchero (è dal 2013 che non ne mangio anche se ne andavo matta), una qualsiasi cosa che per un'altra persona è normalissima. Comunque, dal 9 luglio al 26 gennaio scorso (prima di tornare a essere seguita ambulatorialmente all’Umbertide) ho intrapreso un percorso riabilitativo al Centro Diurno per i Dca "Il Nido delle Rondini" di Todi. Lì ho partecipato al laboratorio di cucina, che si tiene una volta a settimana per riavvicinare le persone al cibo: per la prima volta, dopo non so quanto tempo (ho perso il conto degli anni, forse 4), ho rimangiato un quadratino intero di cioccolato fondente. Non sapevo più che sapore avesse.
E ti è piaciuto?
Sì, mi è piaciuto. Ci sono settimane in cui sono tranquilla col cibo, altre meno e se mangio qualcosa in più del solito, anche mezzo biscotto, il mio pensiero è di dover rimediare al danno. E ci ripenso tutto il giorno. Mi dico “beh, però potevi anche evitare”.
Prima hai parlato di lamette. Hai sofferto anche di autolesionismo?
Sì, tuttora ne soffro, seppur in maniera minore. Ho cominciato a tagliarmi a Parma. Lì, infatti, eravamo molto controllate, era pressoché impossibile andare a camminare, dunque in un modo o nell'altro dovevo punirmi dopo aver mangiato. Mi provocavo delle ferite con tutto ciò di tagliente che trovavo.
Adesso stai riacquisendo peso. Ti fa paura?
Si, mi fa ancora molta paura. Io mi vedo enorme, però sono cose su cui devo lavorare. Ora so che per amare gli altri devo prima imparare ad amare me stessa e pesando 29 chili questo non puoi farlo perché a quel peso non sei neanche più una persona, sei - come dice mia madre - “un mucchiettino d'ossa”.
Cosa consiglieresti alle ragazze che affrontano questo problema?
Di lasciarsi guidare e, ancor prima, di chiedere aiuto perché non è impossibile uscirne. Niente è impossibile se lo vuoi veramente. Bisogna aprire gli occhi: la vita non è dentro il centro. Io mi guardo indietro e capisco di avere tantissime occasioni perse alle spalle, però sono giovane e ho ancora tanti anni davanti. Magari non guarirò al cento per cento però posso avere una vita normale.