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Giulia: da Cuneo all'Afghanistan per aiutare i bimbi e le neomamme

Il parto rimane una delle principali cause di morte delle donne, ma qualcosa si può fare: per esempio formare adeguatamente le ostetriche

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Giulia Moggio è una giovane ginecologa piemontese. Trentasei anni, di Cuneo, tanta voglia di dedicarsi agli altri; non a caso studia medicina, ma l’idea è soprattutto quella di aiutare le donne e i bambini. Una voglia che la spinge a partire per i luoghi in cui il parto rappresenta ancora un rischio altissimo per la vita delle donne e la mortalità neonatale raggiunge livelli impressionanti.

Una vera emergenza sanitaria: secondo un rapporto Unicef, in Afghanistan muore 1 neonato su 25, mentre in Italia, tanto per fare un confronto, si ha un tasso di mortalità neonatale di 1 neonato morto ogni 500 nati vivi.

Sempre secondo il rapporto, queste morti si possono prevenire con accesso a personale ostetrico qualificato, unito a soluzioni igieniche adeguate, come l'acqua pulita, i disinfettanti, l' allattamento nelle prime ore di vita, il contatto pelle a pelle e naturalmente la  buona nutrizione.

Giulia, come hanno reagito i suoi genitori quando ha detto che partiva con Medici Senza Frontiere?
I miei genitori erano preoccupati, ma rassegnati. Mi hanno detto: ma proprio in Afghanistan devi andare? Non c’è un posto più tranquillo? Poi mi hanno visto felice e questo è bastato.
D’altra parte, ho deciso di partire con MSF perché avevo la garanzia di poter lavorare per un’organizzazione davvero imparziale e coerente, molto strutturata e quindi in grado di garantire maggior sicurezza agli operatori prestando standard di cure molto alti.
Sono partita per Khost, una città nel sud est dell’Afghanistan, a 30 chilometri dal confine con il Pakistan, dove nascono circa sessanta bambini al giorno, 2.000 al mese!


Come è andata? Cosa ci può raccontare?
È stata un’esperienza che ha superato le mie aspettative e durante la quale ho avuto spesso la sensazione di trovarmi al posto giusto nel momento giusto.
Khost rappresenta una realtà unica: ogni giorno donne lavorano per la salute di altre donne e dei loro bambini. Tra quelle mura si avverte una forza incredibile, tutta femminile.  
Ho la testa e il cuore pieni di ricordi positivi: dai sorrisi riconoscenti delle pazienti arrivate in condizioni critiche, al primo pianto di quel neonato salvato, dagli incredibili miglioramenti che in tre mesi ho visto fare alle ostetriche locali, ai loro forti e sinceri abbracci, dal supporto costante degli altri compagni di avventura, a tutto quello che ho imparato dalla vita in ospedale e dai racconti di vita degli altri operatori espatriati.
Una sfida importante è fare fronte al carico di lavoro dell’ospedale: in un mese ci sono circa 2.000 parti e questo significa sale travaglio, sala parto, sala operatoria e reparto sempre pieni, le urgenze e le emergenze costanti.
Pretendere di avere tutto sotto controllo è una follia, ma questo apre la porta a un vero gioco di squadra e alla responsabilizzazione dello staff nazionale.

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Il suo rapporto con le colleghe afghane?
In Afghanistan ho lavorato al fianco di tantissime ostetriche straordinarie.
Arrivavano ogni mattina nascoste nel loro burqa blu, fantasmi senza occhi, si cambiavano e si rivelavano donne indipendenti, professioniste capaci di salvare altre donne, in grado di sostenere la famiglia con uno stipendio: un vero miracolo in questa regione estremamente conservatrice.


Lo rifarebbe?
Partirei di nuovo, assolutamente sì. Questa missione mi ha fatto riscoprire il significato profondo del mio lavoro, mi ha riacceso dentro la speranza di poter cambiare qualcosa, nel mio piccolo.

Suggerirebbe il suo esempio?
Certamente. A chi volesse partire con Medici Senza Frontiere raccomanderei solo due cose: indipendenza e adattabilità. Indipendenza a livello lavorativo, soprattutto per lo staff medico: bisogna arrivare in missione già capaci ed assolutamente autonomi nel proprio lavoro perché non si può essere utili se non si hanno solide competenze professionali (e di cose da imparare in contesti così diversi, ce ne sono già moltissime!).
Adattabilità e resilienza sono necessarie per affrontare la vita in una realtà comunque di guerra, di pericolo e di alti livelli di stress.
Per il resto, basta tenere occhi e cuore ben aperti per ritrovarseli pieni traboccanti a fine missione.

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