INTERVISTA A TINY BULL STUDIO

Dal Politecnico alla realtà virtuale: come nasce un videogioco made in Italy

Storytelling, atmosfere cupe e ampie vedute sul futuro per gli sviluppatori italiani che di recente hanno lanciato un progetto VR di nome Blind

Nel lontano 2011, per le classi del Politecnico di Torino studiavano due ragazzi che nutrivano il sogno di mettersi in tasca la laurea in informatica e scoprire un po' il mondo della realtà virtuale, senza immaginare cosa sarebbe accaduto più tardi. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti all’ombra della Mole Antonelliana, così come di progetti, idee, prove ed errori in casa Tiny Bull Studios, il team fondato da un gruppo di appassionati di videogiochi che ha di recente pubblicato il libro-gioco Omen Exitio: Plague e un progetto per VR intitolato Blind.

Blind è un thriller psicologico per realtà virtuale, ideato per dispositivi come Oculus Rift, Steam VR, PlayStation VR e OSVR. Il giocatore impersona Jean, una ragazza che dopo un incidente d'auto si sveglia in una casa sconosciuta e improvvisamente cieca. Scopre però di possedere una sorta di potere di ecolocazione, grazie al quale può percepire l’ambiente tramite le onde sonore emesse dal suo bastone o dagli oggetti vicino a lei, rivelando il mondo a piccole porzioni per volta. Il suo obiettivo è fuggire dal maniero misterioso, cercando di capire perché si trova lì e chi sia l'inquietante individuo che si aggira per la dimora, ma scoprirà in fretta che quella prigione non è ciò che sembra.

Tgcom24 e Mastergame hanno scambiato due chiacchiere con Matteo Lana, uno dei fondatori dello studio torinese, che ha raccontato per filo e per segno le vicende sin dal principio.

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Nel 2018 sono usciti due titoli importanti per il vostro studio, dopo tanti progetti e piccoli lavori. Ma com'è nato il team e il vostro primo titolo in VR, Blind?

Il team è nato sui banchi di scuola, o meglio di università, dove io e Rocco (Tartaglia, ndr), il mio socio, ci siamo conosciuti in un laboratorio presso la facoltà di Informatica al Politecnico di Torino. Non avevamo in mente nessuna idea di formare una società, all'inizio, ma avevamo visto quanto riuscissimo a lavorare bene insieme. Tra lavori freelance e dopo la tesi di laurea dedicata alla tecnologia VR, abbiamo cominciato a creare un primo gioco mobile molto semplice, fino a ufficializzare la nascita del team vero e proprio, nel 2013. Solo l’anno dopo è nato il concept di Blind alla Global Game Jam di Torino, il cui tema era: "Non vediamo le cose come sono, ma le vediamo per come siamo noi". Così comincia la storia lunga e travagliata di Blind, nato come una sorta di escape room ma con una narrazione sempre più ampia e riscritta nel tempo.

Cosa ha determinato l'essere così "travagliato" di questo percorso?

La tecnologia stessa della realtà virtuale, in primis. Conoscevamo Oculus Rift DK 1, ma ai tempi non era ancora matura e la questione era resa ancora più complicata dall'assenza di regole per sviluppare un gioco in VR. Questo è stato il passo più difficile da compiere, essendosi evoluta molto in fretta. Non neghiamo che un altro problema sia stato legato alla riproduzione audio, soprattutto perchè per noi era davvero importante, e al lancio di due giochi molto simili a Blind prima che quest'ultimo venisse annunciato. Infine stiamo rilasciando alcune patch per risolvere delle problematiche relative alla comprensione stessa del gioco, in particolare nelle parti dedicate ai puzzle.

A proposito dI Blind, qual è la vostra fonte di ispirazione per questo progetto, ma anche per i diversi lavori del vostro team?

La narrazione è sempre al centro delle nostre storie, in Blind come in altri progetti che abbiamo sviluppato. Nel caso di questo gioco, ci siamo ispirati ai classici thriller italiani anni Settanta e Ottanta, come quelli ideati da Mario Bava, Dario Argento, ma anche influenze da Hitchcock e rimandi ai miti greci, fino a toccare H.P. Lovecraft, rimanendo finora in atmosfere abbastanza cupe, ma nulla esclude una variazione sul tema in futuro. Anzi, è proprio quello che cerchiamo.

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Tra cuore e testa, ossia narrazione e tecnologia, quale delle due è stata più difficile gestire durante gli sviluppi?

Probabilmente la tecnologia, perché abbiamo avuto un sacco di problemi dovuti sia alla sua evoluzione, sia perchè non avevamo esperienze precedenti. Inoltre non avevamo alcuna base di partenza, quindi​​​​ è risultato tutto più difficile da elaborare. Di base, la narrazione resta il nostro punto focale in qualsiasi progetto elaboriamo: amiamo raccontare storie di qualsiasi tipo, non definiamo la nostra identità sulla base di un genere particolare. Siamo "onnivori" da un punto di vista di influenze letterarie e cinematografiche e ci piace riportare questa nostra caratteristica anche sui nostri prodotti, esplorando sempre nuovi modi e mezzi narrativi. Siamo menestrelli un po' matti, senza spingerci finora su storie particolari, ma non lo escludiamo.

Nonostante non conosceste bene la tecnologia VR, come mai avete deciso di sfruttarla lo stesso, non declinando il titolo su altre tecnologie?

L'idea era nata dai publisher, che ci avevano proposto questa modalità risultata efficace, avendo potenziato il gameplay. Lo stesso gioco risulterebbe più piatto senza questa tecnologia, oltre a distinguersi dagli altri giochi abbastanza simili. Per quanto sia stato difficile applicarla, ha sicuramente fornito un plus a Blind.

Invece da un punto di vista di comunicazione con il publisher e la ricezione del pubblico, com'è andata? Ci sono state differenze eventuali tra feedback dall'Italia e dall'estero?

Molto bene da entrambe le parti, abbiamo ritrovato delle osservazioni anche inattese, in senso positivo. Complessivamente, ci aspettavamo un mercato un po' più reattivo in VR, ma questo aspetto è dovuto a un numero effettivamente ridotto di giocatori che usano frequentemente la VR. L'utenza ha risposto bene soprattutto su Steam, quindi siamo abbastanza contenti del risultato ottenuto. Non facciamo però distinzione tra Stati; con un'ovvia attenzione maggiore al pubblico italiano, ci rapportiamo con tutto il mondo, pur avendo notato maggiori traffici in Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti. Cerchiamo sempre di ampliare il nostro target anche ad altri Paesi, come Cina e Russia. Il problema rimane anche a livello di geolocalizzazione, non solo per il lavoro di traduzione, ma ci poniamo anche la questione di come la cultura di arrivo potrebbe recepire il nostro lavoro.

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In Italia invece come vi percepite nel mondo indie?

Conosciamo molto bene alcuni studi, siamo amici. Ammetto che non percepisco competizione, ma un ambiente basato sullo stimolo reciproco e sull'ispirazione, come se fosse una grande famiglia. Nel nostro Paese siamo ancora talmente piccoli, agli esordi rispetto ad altre realtà estere, e talmente impegnati sul proprio lavoro da non avere nemmeno il tempo di poter stare a guardare gli altri con invidia. D'altronde non avrebbe nemmeno senso, perché ognuno porta lustro alla produzione videoludica italiana, essendo un mercato fiorente e con tantissima possibilità di crescita. Possiamo dimostrare di essere in grado di creare contenuti interessanti e mostrarli sia al pubblico italiano, sia estero, come detto poco fa.

Cosa avete imparato da questa esperienza? Quali errori non rifareste e quali punti di forza pensate di applicare di nuovo ai progetti futuri?

Sicuramente abbiamo fatto il passo più lungo della gamba, avendo prodotto un gioco ben diverso e chiaramente molto più complesso rispetto a quelli precedenti per mobile. Se da una parte eravamo inesperti e non sapevamo come organizzarci in modo funzionale, ora abbiamo a disposizione 20 persone che possono offrire delle vere best practices e siamo in grado di definire molto meglio il lavoro di pre-produzione e collaborare al meglio all'interno del team. Una cosa è certa: lavorare su Blind è stato come avere a che fare con una bestia impazzita che ci ha fatto sbattere contro ogni singolo albero della foresta oscura in cui vagavamo. Ora però vogliamo dedicarci meglio ai prossimi progetti, dandoci più tempo per valutare al meglio i pro e contro delle varie tecnologie. Non sappiamo ancora quando ci potrebbe essere un prossimo "big project", nemmeno se sarà basato su VR o meno.

Simone Grosso, game designer, ha seguito gli sviluppi del primo libro/game sviluppato, Omen Exitio: Plague. A lui abbiamo chiesto quali sono state le differenze nella creazione di un gioco come questo.

Lo sviluppo di questo gioco è stato abbastanza difficoltoso nella stesura della storia, anche se i risultati sono stati positivi. Il gioco è stato abbastanza apprezzato e ora lo stiamo migliorando, sia tecnicamente, sia dal punto di vista narrativo, lavorando sul prologo. Stiamo pensando al secondo titolo di questa serie, ma anche ad altri progetti per libri/game, in lancio potenzialmente già nel 2019. Non nascondiamo che desideriamo portare avanti questo genere a prescindere dai prossimi progetti di Tiny Bull; sono una tipologia di nicchia, ma viene comunque apprezzata dal pubblico, considerando le ricezioni finora rilevate. Scritti in italiano e tradotti in inglese, è dispendioso pensarli per pubblici distanti culturalmente e linguisticamente parlando, ma abbiamo notato come sia piuttosto apprezzato dal pubblico russo e cinese. Per questo, stiamo pensando di introdurre in futuro dei lavori specifici per avvicinarci maggiormente anche a queste nazionalità.