A trent’anni dall’ultima mostra a Palazzo Reale e a cinquantasei di distanza da quella curata daRoberto Longhi, Milano celebra ancora una volta uno dei protagonisti dell’arte italiana delnovecento: Carlo Carrà (1881 – 1966).
Dal 4 ottobre al 3 febbraio sarà possibile ammirare a Palazzo Reale la più ampia e importante rassegna antologica mai realizzata sull’artista, con 130 opere concesse in prestito da collezioni italiane e internazionali e, a corredo, un cospicuo nucleo di documenti, filmati e fotografie per raccontare quella che Carrà stesso aveva definito “una vita appassionata”.
Tra gli artisti più importanti del secolo scorso, Carrà, originario di Quargnento, un piccolo comune del Monferrato, ha iniziato giovanissimo il suo percorso nell’arte come garzone al seguito di una bottega di decoratori, si è poi confrontato con il divisionismo, è stato accanto ai futuristi negli anni della ribellione, ha condiviso con de Chirico la paternità della Metafisica, si è cimentato con la scrittura diventando una delle penne più autorevoli de “L’Ambrosiano”, ha guardato per qualche tempo al primitivismo di Giotto per essere poi tra i primi a intraprendere il Ritorno all’ordine arrivando a trovare un’espressione personale fatta di modernità e di tradizione, con un lungo e instancabile esercizio di stile perseguito fino alla fine.
“La mia pittura è fatta di elementi variabili e di elementi costanti. Fra gli elementi variabili si possono includere quelli che riguardano i princìpi teorici e le idee estetiche. Fra gli elementi costanti si pongono quelli che riguardano la costruzione del quadro. Per me, anzi, non si può parlare di espressione di sentimenti pittorici senza tener calcolo soprattutto di questi elementi architettonici che subordinano a sé tutti i valori figurativi di forma e di colore”. Dunque, prima di tutto costruzione, poi spazialità e colore: “I toni affini uniscono e solidificano la massa, mentre i colori complementari la tagliano e la dividono. Per me dunque il colore tono è la parte più intima della pittura”.
E basta prendere una delle opere più belle, ma anche tra le più enigmatiche, esposte in mostra, Il pino sul mare (1921), per rendersene conto. La costruzione è affidata a un rettangolo di casa (la dimora di un pescatore, così era intitolata l’opera quando Carrà l’aveva esposta alla Fiorentina Primaverile del 1922), che come una quinta chiude lo spazio a sinistra; all’albero (dal lungo profilo ritagliato e levigato); al promontorio (che incornicia l’ingresso di una grotta dalle geometrie innaturali perché tracciate con riga e squadra) e al mare: una tavola blu pietrificata e impenetrabile su cui scende un cielo altrettanto compatto e denso. Un silenzio infinito e straniato avvolge ogni cosa. Tutto è immobile e mineralizzato, come colpito da un misterioso incantesimo senza tempo. Anche la luce, fissa e dai toni perlacei, contribuisce a fermare il tempo in un’eternità sospesa. Quella che Carrà rappresenta non è una somma di impressioni o di elementi veristi, ma una trama di conformazioni geometriche, di dati mentali e di memorie. E il colore le asseconda, dimentica vibrazioni e sfumature, per stendersi in superfici composte e regolari.
In altre parole, Carrà non guarda alla natura come un evento, come qualcosa di mutevole, ma come l’incarnazione del mito: “Con questo dipinto – scrive lui stesso – io cercavo di ricreare, per quanto le mie capacità lo consentissero, una rappresentazione mitica della natura”. Un mito che viene evocato non più da ninfe, veneri o dei, ma attraverso le semplici cose quotidiane (una casa, un cavalletto, un albero) che si caricano di meraviglia. L’uomo è visivamente assente, ma il suo passaggio è segnalato dalla casa rimasta aperta, dalla stoffa stesa sul cavalletto, dalla mano che ha modellato le cose. Insomma, prendendo a prestito una frase dello stesso Carrà, possiamo dire che più che un paesaggio ha dipinto “un poema pieno di spazio e di sogno”.
CARLO CARRÁ
Milano, Palazzo Reale
4 ottobre 2018 – 3 febbraio 2019