Sospeso nel cielo, con quei piloni di cemento enormi ma dall'aria fragile, con quelle volte così scarne da sembrare lì per caso, ognuna del milione di volte in cui sono passato sul ponte Morandi, sono sempre stato accompagnato se non da una paura nera, almeno da un senso di disagio smisurato. D'altronde, lo sapete tutti: chi non c'è passato? Chi di voi non ha attraversato almeno una volta quel viadotto di un chilometro che guarda dall'alto il Polcevera. Il Ponte di Brooklyn, lo chiamavamo a Genova. Solo che a Brooklyn dal 1883 quel ponte se ne sta lì, simbolo di una città che guarda con ottimismo il futuro nonostante le ferite subite. Il Morandi, invece, aveva solo 51 anni ed è crollato sotto il peso delle sue cicatrici.
Cosa sia successo, lo racconteranno le cronache, ce ne occuperemo per anni. Quando la polvere delle macerie avrà finito di posarsi, quando i soccorritori, che forse sarebbe meglio chiamare eroi, gente che sta appesa a 60 metri di altezza su di un ponte mezzo crollato e che potrebbe cedere ancora, avranno finito di cercare anche l'ultimo dei superstiti o delle vittime, allora partirà il solito balletto macabro. Una danza della morte, una caccia al responsabile, un chiacchiericcio querulo fatto da chi non è mai stato nemmeno un secondo sotto quel ponte. Perché se sopra avevi paura, sotto te la facevi sotto. Quei piloni enormi sono gambe di gigante piantate in un terreno d'argilla. Ci mettevi 5 minuti per girarci intorno, vedevi le crepe nel cemento, ti chiedevi ancora più che da lassù, come facesse a stare in piedi quella cosa, incastrata in mezzo alle case, in mezzo ai capannoni ma soprattutto in mezzo al greto di un fiume. Pioveva forte mentre il mondo è crollato, come in quei film in bianco e nero dove le lacrime si mischiano alle gocce mentre un fulmine illumina la scena con un tempo drammatico perfetto. E allora qualcuno subito a puntare il dito contro quell'acqua maledetta.
Perché, alla fine, è sempre colpa dell'acqua. Genova è diventata Superba con quella del mare, ma ha pianto troppe volte con quella vorace e irruenta dei suoi torrenti costretti sottoterra, sepolti vivi come creature da dimenticare. Genova, che resiste nonostante quelle case costruite non si sa come e non si sa dove, manciate di cemento gettate a caso a divorare quelle colline che abbracciano il mare. Genova che lentamente muore mentre ostinatamente resta attaccata all'idea di se stessa, mentre intorno il mondo cambia e Boccadasse resta sempre quella, mentre la Lanterna continua a illuminare la notte con una luce intermittente. Genova stupenda e sconosciuta, Genova orribile con quella sopraelevata che la deturpa come uno sfregio. Genova che perennemente in ginocchio, si rialza, come fosse Rocky contro Apollo Creed.
E lo farà anche questa volta, perché il mugugno e la macaia, la focaccia e la panissa, il Genoa e la Sampdoria, Albaro e Castelletto, Levante e Ponente, non importa. Quando Genova è ferita, diventa una cosa sola, una sola anima, un solo corpo, quello dei genovesi. Che magari vi guardano male quando voi foresti chiedete il basilico di PraTO per fare il pesto, ma hanno nel cuore quella Lanterna e nelle braccia la forza di chi scarica container a braccia nude o è arrivato tre generazioni fa per lavorare notte e giorno in un'acciaieria. E' sempre successo, accadrà anche questa volta. Però un favore fatelo a Genova e ai genovesi: ascoltateli e non prendeteli in giro. Se da anni chiedono un terzo valico, una gronda per alleggerire il traffico, l’alta velocità per spostarlo un po’ dalle strade alle rotaie, prendeteli sul serio. Senza accuse sterili e strumentali tra parti che interessano poco a chi su quel ponte ci deve passare tutti i giorni. Con poche parole e molti fatti, senza proclami, tutti uguali il giorno dopo, dimenticati dopo un mese. Se tra un belìn e l'altro raccontano di strani rumori dal sottosuolo, non sono allucinati. Ascoltano i gemiti di sofferenza della loro città fragile, si prendono cura di quella Superba che amano. Non lasciateli soli.