Charity Report

Scuole comunitarie in Zambia

cibo e istruzione: motori dello sviluppo umano

© in-concessione

Progetto numero 8. Chipata, Zambia.
Siamo stanchi. Stanchissimi.

Stiamo viaggiando da sei mesi e mezzo e abbiamo percorso più di 45.000 km: sono tanti, tantissimi. Soprattutto se considerate che trasporti aerei e visite ai progetti ci hanno occupati per più di due mesi. Perciò il tempo effettivo di viaggio è stato di poco superiore a 4 mesi. 
Abbiamo viaggiato alla media di 10.000 km al mese, dormito in 150 letti diversi (non sempre si potevano definire letti…) e le “fermate” sono state tutto meno che riposanti.
Stanchezza a parte, cominciamo a sentire quella strana sensazione agrodolce che ci colpisce verso la fine di ogni viaggio. Siamo stanchi, ma basterebbe qualche giorno di riposo per farci venire voglia di proseguire indefinitamente.

Ma, anche se siamo stanchi, dobbiamo proseguire la corsa senza soste. Il responsabile del prossimo progetto (Chipata, estremo est dello Zambia) è stato richiamato in Italia. Per una serie di problemi piuttosto difficili da comprendere, il progetto di cui si è occupato sta per chiudere. Questo fatto è abbastanza irrilevante per il nostro report (dipende dai punti di vista…) ma ci costringe a raggiungerlo prima della sua partenza, perciò dobbiamo aumentare il ritmo.

Da Windhoeck (sede del progetto n°7), saliamo verso nord fino a Grootfontein, poi pieghiamo verso est e raggiungiamo il corso dell’Okavango a Rundu. Da Rundu proseguiamo fino a Divundu (sul delta dell’Okavango) e poi dritti a est fino a Katima Mulilo. L’Africa “sbiancata” si scurisce sempre di più. La popolazione è solo nera, i villaggi sono solo di capanne. 
Katima Mulilo è l’ultimo paesone della Namibia. Per raggiungere lo Zambia, la strada migliore è quella che passa, per un centinaio di km, in Botswana. La faccenda è complicata e costosa. Da Katima se scende a sud per circa 100 km, poi si prende il ponte sullo Zambesi e si passa in Botswana (pagando il visto, l’assicurazione e il fuel surcharge). Tutto questo per circa 100 km, che però sono tutti nel Chobe National Park. Perciò, se siete fortunati, vi vedrete anche un bel po’ di animali esotici che vanno a fare il bagnetto nello Zambesi. Dal Botswana si passa, finalmente, in Zambia. Qui, oltre ai costi, ci sono anche delle altre difficoltà. 
1) tutte la tasse vanno pagate in valuta Zambiana, che naturalmente non avete e dovete procurarvi a credito dai soliti avvoltoi che si fanno pagare profumatamente per il servizio. 
2) in questo punto dello Zambesi, il ponte non c’è. O meglio: il ponte non c’è “ancora”. Sono almeno 10 anni che è in costruzione, ma i lavori vanno avanti così lentamente che i traghettatori hanno lavoro sicuro ancora per molti anni. 

Ci si imbarca su una delle solite chiatte che, navigando tutte sbilenche, portano sull’altro lato. 
Da lì in avanti, la strada è buona e si arriva a Livingstone in un paio d’ore. Dopo l’obbligatoria visita alle cascate Vittoria, restano due tappone, funestate da una serie infinita di temporali e acquazzoni (d’altra parte siamo nella stagione delle piogge…). 500 km fino a Lusaka e altri 550 fino a Chipata.
Il tratto fino a Lusaka è pessimo. Oltre alla pioggia, ci sono buche enormi alternate a rallentatori “cattivi” ed estremamente pericolosi. Per fortuna, la strada è in gran parte piana e dritta perciò il pericolo è limitato. Lusaka, capitale dello Zambia, è la solita terra di mezzo. L’allegoria di un’Europa inesistente. Distanze enormi, centri commerciali spersi nel nulla e guardie armate ovunque.
Da Lusaka in avanti la situazione migliora. La strada è stata rinnovata, non sono ancora stati messi i “rallentatori assassini”, corre fra le colline e non piove…
Giusto per entrare in argomento, provo a darvi qualche notizia sullo Zambia (ex Rhodesia del Nord). 

Lo Zambia non ha sbocchi al mare, ha una popolazione di circa 15 milioni di abitanti ed ha ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1964. 
E’ il leader mondiale nella produzione del rame e il settore minerario rappresenta più della metà delle esportazioni. Questo settore ha contribuito a spingere il tasso di crescita attorno al 6% annuo, ma la maggior parte degli zambiani sono poveri contadini e l’agricoltura produce solo il 20% del PIL.
Così, nonostante la crescita economica e una relativa stabilità politica, il reddito medio annuo è rimasto attorno ai 1.500 USD e il sistema sociale e sanitario dipende per larga parte dagli aiuti esteri.
Nella classifica mondiale dello sviluppo, lo Zambia occupa il 141° posto su 187 paesi, con il 65% della popolazione sotto la soglia di povertà e l’aspettativa di vita (57 anni) fra tra le più basse al mondo. Gli elementi che determinano questo dato sono povertà, malattie infettive, altissima presenza della malaria e la diffusione dell’HIV, che colpisce quasi il 17% della popolazione. Alcuni settori sociali poi, sono più vulnerabili di altri. Tra le giovani donne (15/25 anni), per esempio, l’incidenza dell’HIV è quattro volte superiore a quella rilevata nei coetanei maschi.
Anche la malnutrizione colpisce principalmente i più deboli.
Il 45% dei bambini sotto i 5 anni soffre di ritardo nella crescita, il 5% è affetto da malnutrizione acuta ed il 14,9% è sottopeso. 
Risultato? Un tasso di mortalità infantile di 141 su 1000. 

L’economia zambiana, oltre ad essere generalmente povera, è anche molto disomogenea.
Le regioni al di fuori delle linee commerciali collegate all’industria del rame, sono fortemente arretrate. 
Il distretto di Chipata, è una delle aree dello Zambia con più alto tasso di malnutrizione e l’HIV è al 26%.

E qui ritorniamo al nostro lavoro.

Arriviamo a Chipata domenica pomeriggio. Una parte della popolazione è di origine indiana ma di religione islamica. Secondo la geopolitica moderna, questa fetta della popolazione potrebbe essere definita pakistana. E’ la “upper class”, occupa le ville che una volta ospitavano alla minoranza bianca e possiede tutti gli esercizi commerciali di qualche importanza, insidiata solo dalla nuova immigrazione cinese. Il resto della popolazione è di colore, appartenente a qualcuna delle 70 diverse etnie che compongono lo Zambia.
L’head quarter del progetto che dobbiamo visitare è qui.  
Cominciamo identificando i responsabili. Enrico e Simonetta vivono e lavorano in quest’area da quasi trenta anni. Qui hanno costruito la loro casa e hanno tirato su tre figli. Insomma: non sono stati spediti qui per occuparsi di un progetto, con la prospettiva di andarsene a lavoro finito. Questo è il pezzo di mondo che hanno scelto di salvare e in cui hanno deciso di vivere.

Questo rende evidente che il loro rapporto con l’Eastern Province, circoscrizione di Chipangali , distretto di Chipata è un rapporto d’amore. 

La loro esperienza su quest’area li ha coinvolti in un progetto (facente parte di un progetto complessivo finaziato dalla UE) della durata di 36 mesi, il cui tema è “Cibo e istruzione: motori dello sviluppo umano”. L’obiettivo è quello di creare un “reale il diritto allo studio” attraverso il supporto alle “scuole comunitarie”.
Ma cosa sono le Scuole Comunitarie? 
Sono scuole nate direttamente dal lavoro delle comunità. Il fenomeno sarà più chiaro se faccio qualche esempio. Questo distretto è a forte vocazione agricola. Per questo motivo il governo ha assegnato delle terre, creando immigrazione da altre province. Si sono così creati degli insediamenti dispersi sul territorio che non hanno ospedali, scuole, corrente elettrica, acqua potabile, copertura cellulare e tutto quello che siamo abituati a considerare parte del nostro paesaggio. Non c’è nessuna struttura statale se non a Chipata che, per alcune di queste comunità, dista più di 100 chilometri. Non si tratta di 100 chilometri europei: sono 100 km africani. Nel periodo in cui li abbiamo visitati, in una stagione umida molto asciutta, coprire questa distanza richiede almeno 4 ore su un 4x4 in buone condizioni. Dovete ovviamente tenere conto che nessuno possiede un veicolo di questo tipo (salvo le ONG) perciò si viaggia a piedi o in bicicletta, perciò 100 chilometri richiedono una passeggiata di 2 o 3 giorni, esposti a tutti i rischi che si corrono nel bush africano…

Per precisione, devo anche segnalare che non tutte le scuole comunitarie sono cacciate chissà dove. Ne esistono alcune anche nella stessa Chipata. In questo caso la loro nascita non è legata all’assenza di strutture statali ma, più semplicemente, al fatto che la scuola statale costa troppo. Sono frequentate da bambini così poveri da non potersi permettere i costi delle tasse scolastiche, materiali didattici e divise.

Bene. Le scuole comunitarie nascono direttamente da queste comunità. I genitori decidono che è necessaria. La costruiscono, trovano un maestro, lo pagano (in natura) e si occupano della manutenzione e di tutto quanto sia necessario per il suo funzionamento. Su questo tema Enrico ci ha rilasciato una lunga intervista che chiarisce l’entità dello sforzo a cui queste comunità si sottopongono per realizzare le scuole.
Il risultato di questi sforzi, soprendentemente lodevoli ed enormemente faticosi, è senz’altro buono anche se, per valutarlo occorre indulgenza e realismo. Gran parte delle scuole sono realizzate con pali stortignaccoli, mattoni di fango, tetti di foglie. La lavagna è validamente sostituita da un tratto della parete pitturato di nero. I banchi sono considerati una mollezza occidentale e i bambini si siedono direttamente a terra (il pavimento è quello fornito da madre natura) oppure su qualche tronco poggiato sul terreno. Possiedono un quaderno e una matita ciascuno. Come cartella, usano un sacchetto di plastica che, uscito da supermercato diversi anni fa, ha già lavorato fino a essere considerato inutilizzabile per ogni altro compito. Le fotografie sono senz’altro più chiare della mia descrizione.
Come dicevo, occorre indulgenza e realismo. Questi genitori, probabilmente analfabeti e senz’altro poverissimi hanno provveduto, come meglio potevano, a dare una scuola ai loro figli. Direi che già questo impegno merita la massima considerazione.
Ma scuola, quaderno e maestro, non bastano. ACRA ha realizzato bagni, pozzi ed è intervenuta per migliorare le strutture dove era necessario. Ha anche favorito e stimolato incontri con le strutture ufficiali, per migliorare la preparazione degli insegnati e le metodologie di insegnamento. 
A questo scopo è anche stato realizzato un “centro di formazione” situato presso una scuola dipartimentale (non dimentichiamo che, nel fortunato caso in cui i ragazzi delle scuole comunitarie superino gli esami, devono avere una preparazione adeguata per proseguire gli studi nel sistema didattico nazionale…).

Ma, fatto tutto questo, ci si è scontrati con un problema ancora più grande.
I bambini che frequentano queste scuole, rimangono spesso a digiuno. 
La fame riduce le capacità di apprendimento (ci mancherebbe altro!) e provoca un alto rateo di abbandono scolastico. 
Qui è inutile che vi annoi con statistiche sulla malnutrizione zambiana e sull’impatto che ha sui bambini e sul loro livello di apprendimento. Del resto potete fare un esperimento su voi stessi: saltate tre o quattro pasti e misurate i risultati del vostro apprendimento, dopo una lezione di lingua russa (o di una qualunque materia vi risulti ostica e poco entusiasmante).

Qui si innesta la parte del progetto che ci interessa di più, perché è quella che ha coivolto direttamente Mediafriends.
Nelle 26 scuole coinvolte, è stata realizzata una costruzione con funzione di dispensa e cucina, è stata fornita una curiosa attrezzatura che permette la cottura dei pasti, rigorosamente a legna, che va procurata ogni mattina. La cucina è completa di stoviglie, ed è stato incoraggiato l’avvio di un orto comunitario la cui finalità è fornire alimenti corretti e diversificati. In questo modo passa anche una forma, molto convincente, di educazione nutrizionale che combatte abitudini alimentari scorrette.

Qui la sintesi del progetto

Anche dopo la fornitura di tutti questi supporti il lavoro dei genitori rimane importante. I padri, dopo aver costruito la scuola, la casa per il maestro, hanno lavorato per la realizzazione di cucine e bagni e si occupano dell’orto. Le madri si occupano della preparazione dei pasti. Operazione che inizia verso le 6 del mattino. Bisogna procurare la legna, accendere il fuoco… e fare in modo che il porridge sia pronto all’ora giusta.
Perfino il pasto ha una funzione didattica. I bambini devono stare in fila, lavarsi le mani e lavare la loro tazza alla fine del pasto… Sembra una lezione di educazione civica. Va segnalato che i bambini africani sono molto rispettosi.

Insomma: c’è tutto quello che ci dovrebbe essere ma…
C’è un enorme “ma” che anticipa la notizia “il progetto è chiuso”.
So bene che ogni progetto deve avere una durata. So anche che tutto è stato realizzato come da programma. Capisco perfettamente che un intervento da parte di un’organizzazione “governativa” come la Comunità Europea deve rispettare regole politiche e diplomatiche molto stringenti…

Però, dopo aver visitato il progetto e aver visto le condizioni di vita in questa regione dello Zambia, penso che qui ci sia ancora molto da fare e mi meraviglio che non ci sia un nuovo sostenitore disposto a sostenere quest’operazione. 
Tutto sommato ci troviamo di fronte ad una iniziativa (le scuole comunitarie) che merita senz’altro di essere incoraggiata: riuscite a immaginare genitori più volenterosi?

Per fortuna Enrico e Simonetta sono riusciti a fare un accordo con una ONG specializzata nell’alimentazione che si è impegnata è fornire i pasti “senza limiti di tempo”.

Meno male, ma tutto il resto dove andrà a finire? Siamo sicuri che tutto quanto già fatto non fallirà sotto le spallate di una crisi economica, di un’ondata di siccità o sotto piogge troppo copiose?
L’esperienza ci insegna che il vero problema dei “paesi in via di sviluppo” è l’endemica precarietà. Il contrario della precarietà è la stabilità, anche del sostegno.
Per fortuna in questo caso possiamo contare su Enrico e Simonetta. Loro da qui non se andranno mai…