Covid, la pandemia dei giovani tra paure, incertezze sul futuro e nuove consapevolezze
Tgcom24 ha raccolto dieci testimonianze di ragazzi che hanno tra i 16 e i 26 anni. Da Verona alla Germania: dieci storie di vita "rinchiusa"
Da quando il coronavirus ha bussato alla porta delle loro vite, nel marzo 2020, costringendoli a chiuderla a doppia mandata e a stare in casa, la vita dei ragazzi di tutto il mondo è stata stravolta. Gli inseparabili smartphone e computer, che prima rappresentavano svago, sono diventati una finestra sul mondo, inglobando scuola, università, amori, amici e famiglia. "Prof, non sento", "Accendi la telecamera", Dad, Classroom, Whatsapp, Zoom, Meet, Instragram e TikTok. E' questo il mondo della Generazione Covid. Tra una chat e una videochiamata, i giovani hanno affrontato la difficile emergenza della pandemia. Tgcom24 ha raccolto dieci testimonianze di ragazzi che hanno tra i 16 e i 26 anni. Perché ogni piccolo quadratino sugli schermi racchiude un'esperienza a sé.
Elisabetta ha 22 anni ed è di Verona. Quando è scoppiata l'emergenza coronavirus, faceva il primo anno di università a Ferrara, da pendolare. "Marzo è trascorso serenamente - racconta -. Potevo godermi le lezioni da casa senza dover viaggiare. Dopodiché, la situazione ha cominciato a essere molto pesante. Non avere l'opportunità di vedere altre persone o anche solo il mio fidanzato, che abita a due chilometri da me, è stato un duro colpo. Sono aumentati anche gli attriti in famiglia, è entrata in crisi la mia relazione, ho perso tante amicizie. Ho sempre sofferto di attacchi di panico, ma avevo imparato a gestirli. A fine marzo, purtroppo, sono ricominciati e per lo stress non riuscivo più ad affrontarli".
Con l'arrivo dell'estate - che ha portato po' di normalità - il contesto è migliorato. Elisabetta ha cambiato facoltà e ora frequenta il primo anno di Psicologia a Verona. "In tanti mi dicevano che il primo anno di università sarebbe stato speciale, io non lo ricorderò con piacere - dichiara -. Nessuno mi ridarà il tempo che ho perso. Ho sentito spesso incolpare i giovani di imprudenza. Detto sinceramente, bisogna fare una scelta tra sanità mentale o rischio Covid. Non si può impedire di incontrare i coetanei. Io ora ho una paura folle che la mia vita venga di nuovo bloccata. Sono entrata in terapia e la sto continuando a seguire tuttora".
"Quest'emergenza ha avuto effetti veramente negativi su di me: insonnia, incubi, paura costante, sentimento di oppressione, perché comunque non è ancora finita e non si sa quando finirà", conclude.
Un senso di incertezza che accomuna anche Giulia, che di anni ne ha 18 e frequenta il liceo delle Scienze umane, sempre a Verona. "La mia fascia d'età è quella più colpita a livello psicologico da questa situazione e non se n'è parlato abbastanza. Il primo lockdown mi è sembrato un fastidio passeggero, pensavo che sarebbe finito. A ottobre, invece, ho avuto un crollo psicologico. In prima superiore, purtroppo, avevo sperimentato un periodo di depressione da cui ero riuscita a uscire. Nel momento in cui c'è stata la seconda ondata, sono tornata in quello stato, non mi collegavo più per seguire le lezioni, non sentivo più i miei amici, non avevo voglia di alzarmi la mattina e fare qualcosa. Non riuscivo a trovare uno scopo. Adesso fortunatamente va molto meglio, mi sono fatta aiutare e ho anche ripreso a studiare recitazione. Mi sta aiutando a ritrovare la socialità, il contatto con gli altri", spiega.
Giulia, che quest'anno sosterrà la Maturità, racconta inoltre che la gestione della scuola, nel suo caso, "è stata un delirio: lezioni la mattina e il pomeriggio, professori che le facevano come se fossimo in presenza, altri che si limitavano ad assegnare compiti. Non c'era più una routine". La sua riflessione in merito è netta: "Sono contraria all'idea di tornare a scuola a tutti i costi. A questo punto, bisognerebbe concentrarsi sulla formazione dei professori e su una metodologia didattica diversa. Non ha senso che il docente riporti online la stessa lezione che avrebbe fatto in presenza, perché le dinamiche sono molto diverse".
Anche per Nicola, 16enne di Cagliari, al terzo anno del liceo Scientifico sportivo, la seconda ondata è stata particolarmente dura. Il giovane, infatti, è stato colpito in prima persona dal Covid. A fine ottobre, è risultato positivo - come altri 14 (dei 25) suoi compagni - e, dopo qualche giorno trascorso a casa in isolamento, è stato portato al Santissima Trinità in codice rosso a causa di una forte crisi respiratoria.
"In ospedale - dice - mi hanno subito attaccato all'ossigeno. Preso dall'ansia, mi sono segnato sulle note dell'iPhone le persone a me care e ho iniziato a chiamarle tutte perché sentivo di morire. Ero disperato, anche se non riuscivo a piangere. Sono stato ricoverato due giorni, fortunatamente il fisico ha reagito bene. Ci ho messo però tanto tempo a riprendermi del tutto e, per questo, ho smesso di giocare a basket".
"Il 2020 è stato l'anno più brutto della mia vita, ma forse anche il più bello - conclude -. Mi ha insegnato ad apprezzare le piccole cose, il semplice contatto con i familiari, poter parlare faccia a faccia con qualcuno o abbracciare un amico. Mi è proprio mancata la fisicità con le persone, il divertimento. Questa non è libertà. Spero che tutto ciò finisca il più presto possibile perché c'è bisogno di normalità".
Il contatto con i coetanei è ciò che è mancato di più anche ad Angelica, 19 anni, che frequenta la quarta superiore a Tolmezzo, in provincia di Udine. Una realtà piccola la sua. Abita con la nonna a Socchieve (nella frazione di Viaso), un comune che conta meno di 1000 abitanti. La sua impressione dall'inizio di questa emergenza è di trovarsi "in un film dell'orrore".
"Durante il primo lockdown - racconta -, le Jeep della Protezione civile passavano per il paese dicendo di non uscire assolutamente di casa, raccomandandosi di non rischiare". Inoltre, spiega, questa situazione "ha rovinato alcuni rapporti perché tanti ragazzi, quando si poteva uscire nuovamente, non trovavano la voglia, ormai abituati a stare in casa. Erano come bloccati". Al contrario, l'emergenza, "ha rafforzato i miei legami familiari".
Per quanto riguarda la scuola, ad Angelica la Dad piace. Tuttavia, pensa che la comprensione e l'apprendimento ne risentano. "Dovrebbe essere studiata meglio", afferma. Per non parlare dei problemi di connessione: "Quando nevicava, la linea si staccava. Fortunatamente, i professori sono stati molto comprensivi", conclude.
I problemi di connessione non sono a mancati anche a Caterina, 26 anni, laureanda all'Università di Bologna, che, per colpa della linea mancante non è riuscita a caricare le presenze online e a registrarsi a un esame. "Mi sono arrabbiata", dice. In generale, è proprio la rabbia il suo sentimento predominante in relazione all'emergenza Covid e all'università. "E' stato l'ambito più lento ad avere informazioni, a essere considerato. Pagare le tasse piene per avere un servizio così non va bene. Tutto ciò, inoltre, ha rallentato i miei studi".
A livello di socialità, invece, "ho la sensazione di aver perso un anno", spiega, per poi raccontare che "all'inizio della pandemia, vivevo con altri sei studenti, poi, in previsione di futuri lockdown, ho dovuto cambiare casa e scegliere un appartamento da sola. La situazione era diventata ingestibile. All'inizio ci facevamo compagnia, poi era solo un distrarsi, bevevano sempre". "Da quest'anno caratterizzato dal Covid mi porto dietro un po' di sfiducia - conclude -, perché a nessuno sembra interessare l'aspetto psicologico di questa situazione. Mi piacerebbe ci fosse più considerazione per l'università e, in generale, per gli studenti. E non parlo solo di didattica. Per crescere e stare bene l'uomo ha bisogno di interagire".
Anche Stefano, 21 anni, al quarto anno di Ingegneria meccanica al Politecnico di Milano, pensa che sull'università non sia stata posta abbastanza attenzione. "Mi dispiace che non sia considerata come un lavoro, quando invece è come se lo fosse. E che venga anche trascurata. Si parla sempre di scuola", dichiara.
In piena pandemia, Stefano ha scelto di dedicarsi agli altri. A Natale 2020, ha conosciuto l'Associazione Arcobaleno, tramite la quale ha iniziato a fare volontariato. Una volta ogni tre settimane, si occupa del banco alimentare. "E' una bella possibilità per uscire e fare qualcosa di concreto, nel totale rispetto delle regole anti-Covid. Un'attività che arricchisce tanto. Ti rendi conto, voltando l'angolo, di quanto ci sia bisogno e di quanto il virus diventi una paura quasi secondaria di fronte alla fame", afferma.
"Dalla pandemia ho imparato il rispetto per la vita e l'impotenza di fronte a certe situazioni", dice, per poi concludere con una riflessione: "Stiamo diventando troppo introversi. Vedo ragazzi legati alla realtà virtuale, che pensano ad apparire più che essere. Mi auguro che si comprenda l'importanza della vita reale".
Sara, 18 anni, studentessa al primo anno alla facoltà di Filosofia dell'Università Statale di Milano, ha deciso, come Stefano, di dedicare parte del suo tempo agli altri. In particolare, ai detenuti del carcere "Torre del Gallo" di Pavia, frequentando il laboratorio di letture filosofiche che si svolge ogni 15 giorni. "Purtroppo, a febbraio 2020, causa Covid, abbiamo dovuto interrompere gli incontri in presenza. La direttrice ci ha permesso di continuare online perché la pandemia ha amplificato l'isolamento che caratterizza un ambiente come il carcere", spiega.
Per Sara il 2020 è stato un anno di passaggio non vissuto pienamente: "Avevo tanti progetti, li ho visti sgretolarsi uno per volta. Ho compiuto 18 anni, mi sono diplomata. Affrontare la Maturità in quelle condizioni e con scarse informazioni sulla modalità fino a poco tempo prima dell'esame è stato destabilizzante. Poi, a settembre, ho iniziato l'università, a distanza. L'aspetto della socialità è venuto a mancare, mi sono trovata in un ambiente nuovo senza avere la possibilità di conoscere nessuno". "Ciò che mi è mancato di più quest'anno? La spontaneità e la libertà. Percepisco molta incertezza per il futuro e ciò mi destabilizza - conclude -. Tuttavia, mi sono resa conto che se avessi passato il tempo a piangermi addosso avrei messo in pausa la mia vita. Così non è stato: è cambiata, ma non messa in pausa".
Per Giulia, 25 anni, studentessa di Lingue per il Turismo all'Università di Trento, il 2020 e il 2021 sono stati anni particolari. A ottobre 2020, infatti, è partita in Erasmus e si è trovata in lockdown ad Heidelberg, in Germania, dove ha vissuto fino a marzo. "Facevamo tutto da casa. Sono andata all'estero per ritrovarmi da sola al computer. Ho deciso di farlo perché pensavo che la situazione stesse migliorando. Mi aspettavo una seconda ondata, ma più breve. Per fortuna, sono riuscita a socializzare prima che chiudessero (poco dopo il mio arrivo)", racconta.
"In Erasmus - sottolinea - sarei dovuta partire il semestre prima, ma chiaramente non ho potuto. Tutto era incerto, in quel momento ho anche pensato di rinunciare agli studi come tanti altri ragazzi della mia età. Ti ritrovi chiuso in casa, senza poter programmare niente. Tuttora manca una prospettiva per il futuro, perché è molto difficile capire come sarà la situazione/il mondo quando usciremo da tutto questo".
"Ad ogni modo - conclude -, rifarei l'Erasmus. Sono stata messa alla prova, sono riuscita a vivere un periodo del genere più o meno in isolamento e questo mi ha fatto acquisire fiducia in me stessa".
La pandemia ha impattato anche sulla vita di Elena Maria, una ragazza di 21 anni con sindrome di Down. La giovane frequenta una scuola di formazione al lavoro a Milano. Un servizio comunale, che consiste in laboratori (di cucina, arte, cucito, giardinaggio, informatica ecc.) non tanto formativi, quanto piuttosto utili a far acquisire tecniche, a cogliere skills e, conseguentemente, all'introduzione nel mondo del lavoro. Il tutto si svolgeva in presenza finché il lockdown ha bloccato le attività del centro. Elena Maria, inoltre, ha fatto per due anni l'alternanza scuola-lavoro in uno studio di avvocati a Milano, dove avrebbe dovuto svolgere un tirocinio extracurriculare formativo prima dello scoppio della pandemia, che, però, a causa del lockdown non è andato in porto. "Ho passato alcuni momenti un po' tristi, mi sentivo sola, quindi qualche volta prendevo il cellulare e chiamavo i miei amici", racconta.
"Elena, con i suoi limiti, ha sempre cercato di tenersi impegnata, seguendo la sua routine. Noi le abbiamo lasciato la sua autonomia - spiega il papà della ragazza, Fabio -. A distanza, ha continuato dei progetti, tra cui uno sull'uso dei social, in cui era inserita attraverso le due associazioni Vivi Down e Agpd (Associazione Genitori e Persone con Sindrome di Down). Quello che forse l'ha fatta soffrire un po' di più è il fatto che si siano interrotti i suoi appuntamenti legati al nuoto e al baskin, perché tiene molto all'attività fisica".
Il viaggio tra i ragazzi si conclude a Biella, dove abita Bianca, una ragazza sorda di 16 anni che frequenta il terzo anno del liceo Artistico. "Durante il lockdown, mi sentivo isolata. Successivamente, le continue aperture e chiusure mi hanno confusa e non avevo voglia di uscire", racconta.
Per quanto riguarda la Dad, spiega che "ho più problemi delle persone udenti perché non c'è sufficiente accessibilità per i sordi. Per esempio, noi usiamo Meet, se la professoressa condivide la presentazione io devo vedere l'interprete in contemporanea e questo non è facile. Dopo vari mesi, abbiamo capito che la soluzione migliore per me è vedere l'interprete dal vivo. Perciò, mi reco a scuola alcuni giorni in più rispetto ai miei compagni. Andarci mi fa sentire meglio, posso incontrare i miei amici, ridere e chiacchierare".
"Mi manca la libertà di azione e di viaggiare senza dover controllare le informazioni o i divieti. Da questi mesi di emergenza, ho capito che il rapporto con le persone è fondamentale, noi sordi ci sentiamo molto più isolati. Per esempio, in questo periodo il mio percorso di autonomia si è interrotto, volevo tanto prendere il treno per incontrare la mia migliore amica, ma i miei non me lo permettono. Adesso sono un po' stanca di questa situazione e mi domando sempre quando sarà tutto finito", aggiunge. Infine, un desiderio: "Avere l'accessibilità piena per noi sordi nella vita quotidiana e anche nella scuola. Vorrei solo non rimetterci dal punto di vista culturale né che ragazzi come me abbandonino la scuola prima della Maturità. Inoltre, desidererei non più usare la tecnologia così tanto come in questo periodo".
SU TGCOM24