"La fede mi ha salvato"

"Scalzo a -50 gradi per 17 ore": l'odissea del runner Roberto Zanda

L'atleta sardo, non nuovo a imprese estreme, è rientrato in Italia dopo la disavventura allo Yukon Artic Ultra, in Canada, e rischia di perdere gli arti

In tutto il mondo è conosciuto come l'extreme runner che sfida la morte: imprese su imprese al limite della sopravvivenza hanno decretato ciò, ma stavolta l'ironman sardo Roberto Zanda è arrivato vicinissimo a perdere la sua partita con la vita. "Sono rimasto scalzo e senza guanti, nella neve, a -50 gradi, per 17 ore, solo, nella foresta", ha raccontato l'atleta di Cagliari, dal letto dell'ospedale di Aosta, dove si trova ricoverato dal suo rientro in Italia. Zanda ha rischiato di morire al confine con l'Alaska, partecipando allo Yukon Artic Ultra, l'ultramaratona in solitaria di 400 chilometri in Canada. "Mi sono attaccato agli affetti e alla fede", ha aggiunto, mentre i sanitari valutano il da farsi per il congelamento di quarto grado di mani e piedi.

Su Facebook il suo messaggio di speranza "Non sono preoccupato, - scrive Zanda su Facebook, - ho tanta roba da fare e non sono uno che aspetta di solito. Se devono amputare che si faccia, non saranno quattro protesi il problema". E parte poi il racconto di quell'odissea: "Purtroppo dopo 300 chilometri è accaduto questo fatto, segnaletica o no, allucinazioni o no, ipotermia o no, spot o no spot, capanno o no. Morale: sono vivo e vegeto e spero di trovare due bei piedi che mi permettano di continuare a fare questa bella vita fatta di sport e resilienza".

L'incubo amplificato dalla morsa del gelo "E' stata la determinazione dei sardi a farmi arrivare al traguardo della vita - dice con fierezza l'atleta, soprannominato 'Massiccione' - e anche l'attaccamento alla vita; c'é stato un momento in cui mi sono lasciato andare e poi ho deciso di rialzarmi da quel tepore che mi stava avvolgendo e di andare, scalzo, a cercare i soccorsi". Della massacrante gara Zanda aveva già corso oltre 300 chilometri, collocandosi in seconda posizione. Poi, all'improvviso, "sono arrivato al punto che non vedevo più il segnale, forse ero un po' annebbiato dalla stanchezza". Da quel momento inizia un incubo, amplificato dalla morsa del gelo. Fino all'arrivo dei soccorsi e al trasporto al General Hospital di Whitehorse, nella regione canadese dello Yukon, non lontano dai confini con l'Alaska. Da qui è partita la telefonata all'ambulatorio di Medicina e neurologia di montagna di Aosta per un consulto in telemedicina. Poi la decisione di trasferire il paziente in Italia con un volo sanitario.

Il futuro? "Stiamo ipotizzando di sottoporlo ad un trattamento cellulare che consente un autotrapianto di cellule dal midollo osseo direttamente nella zona colpita dal grave quadro ischemico e necrotico", spiega Flavio Peinetti, primario del reparto di chirurgia vascolare. Ad Aosta opera una task force multidisciplinare specializzata nei più complicati casi di incidenti in montagna. "Questo è il caso più grave che abbiamo avuto, un caso veramente grave che andrà valutato con attenzione", ammette il neurologo Guido Giardini, direttore dell'ambulatorio. "I medici possono dire quello che vogliono, - ribatte Zanda - qualcosa sicuramente la perderò, dicono che faranno il possibile per salvarmi i piedi e le mani, però qualche cosa sicuramente la lascerò sulla strada, che sia poco o molto. Con le protesi oggi si fanno miracoli, saranno nuovi piedi, sarò una nuova sfida".